L’Indice del Pianeta Vivente (Living Planet Index) è un indicatore dello stato della biodiversità globale, elaborato dal WWF e dalla Zoological Society of London, che ci segnala quindi lo stato di salute della biodiversità del nostro pianeta. Pubblicato per la prima volta nel 1998, per due decenni ha registrato l’abbondanza di 16.704 popolazioni di oltre 4.000 specie di mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi (gli animali vertebrati) in tutto il mondo. L’Indice analizza i trend di queste popolazioni, selezionate in maniera scientifca, quale misura dei cambiamenti nella biodiversità. In questa edizione 2018, la ventesima del Living Planet Report, l’indice include i dati dal 1970 al 2014 e mostra un declino globale del 60% nella dimensione delle popolazioni di vertebrati che, in pratica, significa un crollo di più della metà in meno di 50 anni.
Di seguito gli ultimi due paragrafi del capitolo “Imago patris: fallimento e realizzazione dell’eredità” di Massimo Recalcati tratto dal libro Eredi (AA.VV., 2012).
[…] Il padre trasmette l’eredità non quando mostra di detenere l’ultima parola sul senso del mondo, ma quando sa proporre una soluzione singolare, quella che egli stesso ha trovato nella sua vita, per tenere insieme Legge e desiderio. La sua testimonianza non ha niente di esemplare perché la sua efficacia non consiste nel rispecchiare un modello ideale, ma nell’incarnare singolarmente la possibilità di esistenza di un’alleanza tra desiderio e Legge.
6. Evaporazione e resistenza del padre
Il nostro tempo, affermava Lacan, è il tempo dell’evaporazione del Padre. Il nome del padre non ha più forza né consistenza, ha smarrito la sua autorevolezza simbolica. In Habemus papam di Nanni Moretti il balcone di piazza S. Pietro appare sconsolatamente vuoto, le tende battute dal vento. Nessun Padre-papa è più in grado di prendere la parola. Afasia, afonia del grande Altro. Il Padre-papa ha paura, è terrorizzato, si trasforma in un bambino che piange convulsamente. Il sacco del Nome del padre è vuoto. Il tempo del Padre come manifestazione analogica di Dio in terra si è irreversibilmente esaurito. Il cielo sopra le nostre teste è vuoto, affermava Sartre. Non vi possiamo più prelevare una bussola certa capace di orientare il cammino delle nostre vite. Dobbiamo piuttosto provare a ripensare il padre a partire dalla sua evaporazione. Allora la domanda cruciale diviene: cosa resta del padre, cosa resta del padre nel tempo della sua evaporazione? E mi rispondo così: quello che resta non è l’ultima parola sul senso del mondo, sul senso del bene e del male, sul senso della vita e della morte, ma l’atto del portare la parola, del saper dare la parola, del saper portare il fuoco della parola.Quello che resta del padre nel tempo della sua evaporazione è un atto di responsabilità in pura perdita. Una responsabilità che non vive di rendita, che non può più usufruire di alcuna autorevolezza veritativa e padronale, perché quella autorevolezza e quella padronanza sono definitivamente tramontate. Quello che resta del padre è una responsabilità che si deve ricostruire “dai piedi”, dalla testimonianza incarnata di cosa può essere alleanza tra il desiderio e la Legge. L’etica della testimonianza paterna non è l’etica dell’ideale del Padre. Ripetiamolo: una testimnianza non è ideale, non vuole essere mai esemplare. Se lo diventa è perché il soggetto la riconosce come tale solo retroattivamente. La paternità è invece una responsabilità senza proprietà, una responsabilità illimitata. È un atto d’amore. Cos’è, infatti l’amore se non una responsabilità senza diritto di proprietà? Quanto amore ci vuole per sapere lasciare andare i propri figli? Quanta responsabilità senza alcun senso di proprietà – quanto amore senza interesse – quanta responsabilità illimitata ci vuole per lasciarsi tramontare?
7. Leggere il dolore sulle foglie
Un padre è al di là del sangue e della biologia, ma è anche al di là del genere, del sesso. Un padre è innanzitutto l’incontro possibile con una testimonianza. C’è un padre dove c’è testimonianza incarnata di come sia possibile tenere insieme Legge e desiderio. Qualunque cosa può essere un padre. Qualunque cosa può tornare dal mare. Un allenatore di pugilato lettore della Bibbia – come è Frankie di One million dollar baby di Clint Eastwood – un vecchio pensionato, un maestro, una madre, la lettura di un classico, un’opera d’arte, uno psicoanalista… L’eredità non è eredità di sangue, ma eredità di una testimonianza. In questo senso ogni paternità è sempre adottiva. Tutto l’ultimo cinema di Eastwood esalta questa dimensione della trasmissione del desiderio al di là del sangue. Qualunque cosa, qualunque incontro contingente, può portare con sé il dono dell’alleanza tra Legge e desiderio Mio padre compie ottant’anni. Camminava davanti a me con il passo di un gigante, le domeniche mattina, quando andavamo a visitare i bancali della serra dove giacevano doloranti le sue piante malate…. Il suo italiano incerto e il suo dialetto milanese lasciavano allora misteriosamente il posto al latino. In quella lingua antica pronunciava i nomi delle malattie delle sue piante. Leggeva sulle foglie (morsicate da insetti invisibili dai nomi misteriosi, o invase da muffe e da maculature spettrali) le loro malattie, per poi preparare le pozioni magiche per il loro trattamento. Mi sono trovato a riferire a questo ricordo infantile, più volte, il mio spiccato gusto per la diagnosi psicopatologica. Leggere gli uomini è per me un po’ come leggere le foglie malate per trovare la via giusta della cura. L’eredità del padre è l’eredità di una passione. Leggere il dolore sulle foglie: mi sono accorto di non aver continuato a fare altro che questo. Ereditare è scoprire di essere diventato quello che che ero già sempre stato, fare proprio quello che era proprio da sempre. Ha ragione Telemaco: qualcosa torna sempre dal mare.
Oggi i risultati delle recenti elezioni (che hanno premiato i due partiti di più “rottura”) sembrano in linea con le tendenze socio-economiche raccontate dal Rapporto.
– “gli italiani stanno vivendo un quieto andare nella ripresa”?
– disaffezione nei confronti della politica perché sono anni che non si curata la solidarietà sociale
– giovani pochi e maltrattati
– un grande assente: gli investimenti pubblici
– vi è microfelicità quotidiana riconquistata dagli italiani
– cultura e entertainment sono il nuovo passpartout per stare nella globalità
– pesa anche il saldo migratorio dei cittadini italiani verso l’estero che aumenta sempre più
– denatalità
– progressivo invecchiamento
– degiovanimento del paese
– riduzione del peso demografico: una miccia accesa che rischia di deflagrare nel futuro perché si pone un problema strutturale del sistema paese
– il ricambio generazionale non viene più assicurato
– “i giovani non contano perché sono pochi”.. sono un bacino elettorale scarso (11 milioni), ma che si riduce nel tempo e quindi non li guarda con sufficiente attenzione
– manca attenzione alla qualità del capitale che stiamo attraendo
– se poi ci metti che i migliori giovani scappano dall’Italia
– vi è il fenomeno dell’overeducation
– vi è il timore di un declassamento sociale: l’87% dei Millennials pensa che sia molto difficile l’ascesa sociale e il 69% di loro pensa che sia molto facile l’arretramento sociale
– vi è risentimento e nostalgia nei confronti della politica e di chi è rimasto indietro
– si è verificata la rottura patto intergenerazionale che aveva fatto da guida al paese dal dopoguerra in avanti, ossia di quella tacita promessa per cui le generazioni più giovani avrebbero goduto di condizioni sociali economiche, occupazionali migliori delle generazioni precedenti
– oggi l’immaginario collettivo ha perso la forza propulsiva che aveva avuto in passato
– il corpo sociale fatica a star dietro all’innovazione tecnologica
– affanno complessivo della società italiana
– il rancore sfocia in una crisi familiare piccola e contenuta, rimane inscatolata in circuiti stretti e non diventa conflitto sociale
– il rancore sociale non ha ancora portato a quella frattura che sarebbe necessaria per aprire un nuovo ciclo
“La politica invece ha mostrato il fiato corto, nell’incessante inseguimento di un quotidiano «mi piace», nella personale verticalizzazione della presenza mediatica. I decisori pubblici sono rimasti intrappolati nel brevissimo periodo. Il disimpegno dal varo delle riforme sistemiche, dalla realizzazione delle grandi e minute infrastrutture, dalla politica industriale, dall’agenda digitale, dalla riduzione intelligente della spesa pubblica, dalla ricerca scientifica, dalla tutela della reputazione internazionale del Paese, dal dovere di una risposta alla domanda di inclusione sociale, ha prodotto una società che ha macinato sviluppo, ma che nel suo complesso è impreparata al futuro.
Se chi ha responsabilità di governo e di rappresentanza si limita a un gioco mediatico a bassa intensità di futuro, resteremo nella trappola del procedere a tentoni, senza metodo e obiettivi, senza ascoltare e prevedere il lento, silenzioso, progredire del corpo sociale.”
“[…] L’Italia dei rancori. Nella ripresa persistono trascinamenti inerziali da maneggiare con cura. Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore. L’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, come l’83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Pensano che al contrario sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti. La paura del declassamento è il nuovo fantasma sociale. Ed è una componente costitutiva della psicologia dei millennials: l’87,3% di loro pensa che sia molto difficile l’ascesa sociale e il 69,3% che al contrario sia molto facile il capitombolo in basso. Allora si rimarcano le distanze dagli altri: il 66,2% dei genitori italiani si dice contrario all’eventualità che la propria figlia sposi una persona di religione islamica, il 48,1% una più anziana di vent’anni, il 42,4% una dello stesso sesso, il 41,4% un immigrato, il 27,2% un asiatico, il 26,8% una persona che ha già figli, il 26% una con un livello di istruzione inferiore, il 25,6% una di origine africana, il 14,1% una con una condizione economica più bassa. E l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti quando si scende nella scala sociale: il 72% tra le casalinghe, il 71% tra i disoccupati, il 63% tra gli operai.
Il rimpicciolimento del Paese. La demografia italiana è segnata dalla riduzione della natalità, dall’invecchiamento e dal calo della popolazione. Per il secondo anno consecutivo, nel 2016 la popolazione è diminuita di 76.106 persone, dopo che nel 2015 si era ridotta di 130.061. Il tasso di natalità si è fermato a 7,8 per 1.000 residenti, segnando un nuovo minimo storico di bambini nati (solo 473.438). La compensazione assicurata dalla maggiore fertilità delle donne straniere si è ridotta. A fronte di un numero medio di 1,26 figli per donna italiana, il dato delle straniere è di 1,97, ma era di 2,43 nel 2010. Nel 1991 i giovani di 0-34 anni (26,7 milioni) rappresentavano il 47,1% della popolazione, nel 2017 sono scesi al 34,3% (20,8 milioni). Pesa anche la spinta verso l’estero: i trasferimenti dei cittadini italiani nel 2016 sono stati 114.512, triplicati rispetto al 2010 (39.545). Il ricambio generazionale non viene assicurato e il Paese invecchia: gli over 64 anni superano i 13,5 milioni (il 22,3% della popolazione). E le previsioni annunciano oltre 3 milioni di anziani in più già nel 2032, quando saranno il 28,2% della popolazione complessiva. […]
Risentimento e nostalgia nella domanda politica di chi è rimasto indietro. L’onda di sfiducia che ha investito la politica e le istituzioni non perdona nessuno: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. Non sorprende che i gruppi sociali più destrutturati dalla crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi della globalizzazione siano anche i più sensibili alle sirene del populismo e del sovranismo. L’astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto del ceto dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica.”
La popolazione italiana si restringe Se si potesse rappresentare l’Italia di domani con una immagine, andrebbe illustrata come un ospedale o una grande casa di riposo. Il nostro Paese sta lentamente morendo: da più di venti anni (1994) le nascite non sono sufficienti per compensare il numero dei decessi. E la crescita della popolazione, registrata nelle statistiche, ha beneficiato negli ultimi anni soltanto del contributo dei flussi migratori (sono poco più di 5 milioni gli stranieri che vivono nel Bel Paese, con una incidenza che ha raggiunto l’8% della popolazione). A dispetto di tale contributo, ell’ultimo anno la popolazione residente in Italia (pari a 60 milioni 656 mila individui), è risultata per la prima volta in assoluto, in calo di ben 140 mila unità. Tale flessione ha di molto anticipato un fenomeno che era già ampiamente nelle previsioni, seppure con una accelerazione attesa solo a partire dal 2020. Secondo le ultime proiezioni delle Nazioni Unite, l’arretramento della popolazione nel nostro Paese avrà dimensioni tra le più ampie di tutta Europa: entro il 2050 gli individui residenti in Italia saranno 56 milioni ed entro il 2100 meno di 50 milioni, con un saldo negativo prossimo al 20% rispetto ad oggi (nello scenario più pessimistico si scende addirittura poco sopra quota 30 milioni di persone). In questo scenario macro stupiscono alcuni dati territoriali. A suggerire che trend demografici e condizioni economiche sono strettamente correlati, nel 2014 nelle Regioni del Mezzogiorno, da sempre considerate le più prolifiche in termini demografici, si sono registrate appena 174 mila nascite, il minimo storico dall’Unità d’Italia. Anche qui una vera e propria emergenza demografica. Saremo in ogni caso di meno e soprattutto saremo sempre più anziani: entro il 2050 quasi un individuo su cinque avrà oltre ottant’anni ed uno su tre più di 65 anni. A ben guardare le statistiche disponibili, l’Italia di domani sarà più simile alla Liguria di oggi, la Regione più anziana di tutto lo Stivale (ove quasi il 30% della popolazione è già nel 2016 fatta da ultrasessantacinquenni). Saremo, inoltre, il Paese degli ultracentenari. Se già oggi l’Italia si colloca in quinta posizione per numero di persone con oltre 100 anni di vita (sono complessivamente 25 mila, alle spalle di Stati Uniti, Giappone, Cina e India), i “grandi longevi” aumenteranno entro il 2050 di quasi 10 volte (220 mila) ed entro il 2100 di quasi 30 volte (710 mila), con una incidenza sul totale della popolazione (1,5%) che sarà la più elevata tra le economie avanzate (0,2% a livello globale, meno dell’1% nel Vecchio Continente). Sotto questo punto di vista, l’Italia andrà somigliando sempre più alla Sardegna: in quella regione si contano, infatti, 22 centenari ogni 100 mila abitanti, la più alta concentrazione al mondo, ancor più della celebre isola di Okinawa in Giappone. Alle dinamiche demografiche si è sommata negli ultimi anni una rinnovata tendenza degli italiani – soprattutto i più giovani – ad abbandonare l’Italia in cerca di fortuna e di nuove opportunità di lavoro. Evento non certo nuovo nella storia del nostro Paese, ma che nei tempi recenti ha sperimentato un significativo incremento: secondo i dati dell’Anagrafe della popolazione italiana residente all’estero (Aire), nel 2015 sono stati 107 mila gli emigranti italiani (+6 mila unità in confronto all’anno precedente, un record assoluto), di cui la metà di età compresa tra 20 e 40 anni. Nell’ultimo decennio, tra il 2006 ed il 2015, sono così saliti a più di 800 mila gli italiani che hanno lasciato il Paese, mentre ammontano a 4,8 milioni le persone di nazionalità italiana ufficialmente residenti all’estero. Due “expats” italiani su tre si sono diretti verso gli altri Paesi Europei (Germania e Gran Bretagna, la meta preferita tra i più giovani, oltre alla Svizzera ed alla Francia), ma anche oltre i confini del Vecchio Continente (Brasile, Stati Uniti, con una forte crescita degli Emirati Arabi Uniti, nuova terra di conquista dei nostri connazionali). Il declino demografico in atto non è quindi solo una questione di calo della popolazione, ma ancor più di squilibrio tra generazioni, con le implicazioni sociali ed economiche che ne derivano. Infatti, il fenomeno del cosidetto “degiovanimento” (riduzione dei giovani) è ancora più marcato dell’invecchiamento (aumento degli anziani): in altri termini, l’Italia perde ogni anno più giovani di quanti anziani guadagna, rinunciando di conseguenza a quella porzione di popolazione potenzialmente più dinamica e produttiva.
Ieri nell’aula magna dell’università Luiss di Roma si è tenuta la presentazione del Rapporto 2017 della Fondazione Bruno Visentini dal titolo “Il Divario Generazionale tra conflitti e solidarietà”.
Dalla presentazione del Rapporto:
Si può parlare, per i millennials, i nati alla fine del secolo scorso, di “generazione perduta”, appellativo che fu in precedenza attribuito ai loro genitori? La risposta è no, ma il rischio di una deriva è molto elevato e gli oneri per uscire dall’impasse gravano, attualmente, sui diretti interessati. Questi “crescono” in una società costruita e gestita a misura delle generazioni mature, che preclude ai giovani anche la visione, la speranza e l’aspettativa stessa di un benessere futuro: una società “dominata” dai baby boomers che hanno goduto di una confortevole gioventù e che oggi approdano a una confortevole vecchiaia da silver boomers. La questione del “divario generazionale”, così come le possibili soluzioni a essa connesse, chiamano in causa innanzitutto i principi di solidarietà (art. 2) e di uguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione (art. 3): non è possibile, infatti, essere «eguali di fronte alla legge» ovvero esercitare i medesimi diritti, sia civili che sociali, se prima non vengono rimosse le condizioni di diseguaglianza che impediscono a tutti di fruirne effettivamente.
In questo quadro la ricerca ha compiuto un’analisi comparata delle principali esperienze italiane in tema di riduzione del divario generazionale, attraverso l’aggiornamento al 2030 di uno specifico Indicatore di Divario Generazionale (messo a punto nel 2015 in partnership con la FBV dal ClubdiLatina) e operando nell’ambito degli obiettivi indicati dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta nel 2015 da tutti i paese membri dell’ONU.
Una forbice – è emerso – le cui ‘lame’ tra 2004 e stima 2030 triplicano la loro distanza. se cioè, un giovane di vent’anni nel 2004, per raggiungere l’indipendenza, doveva scavalcare un ‘muro’ di un metro, nel 2030 quel muro sarà alto 3 metri e dunque invalicabile. e, lo stesso giovane, se nel 2004 aveva impiegato 10 anni per costruirsi una vita autonoma, nel 2020 ne impiegherà 18, e nel 2030 addirittura 28: diventerebbe, in sostanza, “grande” a cinquant’anni.