Un paese per dinosauri

Di seguito riporto un bell’articolo di Virginia Della Sala per “il Fatto quotidiano” sulla presentazione del libro di Antonio Golini e Marco Valerio Lo Prete Italiani poca gente avvenuta il 13 maggio 2019 e di cui Piero Angela ha scritto la prefazione (via Dagospia). 

ITALIANI POCA GENTE

Piero Angela ha quasi 91 anni. “Lo dico con un pizzico di civetteria, ho un po’ di ernia del disco ma la macchina funziona ancora. Farò il quarto Quark tra qualche mese!” spiega sorridendo quando lo incontriamo alla Società Geografica Italiana per parlare di demografia e del libro di Antonio Golini e Marco Valerio Lo Prete, Italiani poca gente (Luiss University Press) di cui Angela ha scritto la prefazione. Piero Angela, oggi presenta un libro sulla denatalità in Italia. Siamo sempre meno.

Come mai?
In generale, e nella nostra politica in particolare, non c’è una visione di lungo termine.

La crisi demografica è la conseguenza di programmi tarati solo sul consenso immediato. Cambiare politica è facile e veloce, cambiare la demografia no. C’è una bellissima metafora usata da Antonio Golini: in un orologio, le lancette dei secondi rappresentano la politica, quelle dei minuti l’economia, quelle delle ore la demografia. Ma sono quest’ultime a dirti che ora è. Sembrano ferme, ma segnano il tempo.

Perché siamo passati dalla media di 2,7 figli per donna del 1964 a poco più di uno?
Quando è nato mio padre, nel 1874 (era un contemporaneo di Garibaldi!) la società italiana era contadina, al 70% analfabeta, con una vita breve e grama. Poi, dall’ analfabetismo di massa si è passati all’ università di massa, il reddito è aumentato, la vita delle persone si è trasformata. Certo, non è stato merito della politica, che non è mai servita a nulla: la democrazia è frutto di innovazione, energia, educazione, valori, comunicazione. Se lei fosse nata all’ epoca di mio padre, si sarebbe sposata a 16 anni. Invece quanti anni ha e quanti figli ha?

Trenta e niente figli.
Ecco. Sui registri matrimoniali dell’800, l’ 80% delle spose firmava con la croce.

Cosa poteva fare una donna che firmava con la croce se non sposarsi e fare dei figli? A quei tempi, lei avrebbe già avuto cinque figli e starebbe badando alla casa in campagna. E io sarei con le scarpe piene di fango a governare le mucche.

E oggi?
A 25 anni neanche ci si pensa, giustamente. La società moderna è frutto di un processo di liberazione dell’ uomo, ancor di più della donna. Le studentesse sono più degli studenti, si laureano prima e con voti migliori. La superiorità del maschio è stata smentita dall’accesso delle donne all’ istruzione. Qualunque ragazza che si laurei non vuole subito dedicarsi ai pannolini, sa che con la routine familiare alcune attività le sarebbero precluse. Quindi ritarda l’ arrivo di un figlio. Ma più lo si ritarda più diventa difficile farlo e quando arriva, ci si ferma a uno.

Come mai non se ne parla abbastanza?
A nessuno importa del futuro. Nel Rapporto sui limiti dello sviluppo realizzato ormai 50 anni fa c’era una tabella che è ancora valida: tanti quadratini delineavano lo spazio e il tempo e in ognuno bisognava segnare con un punto l’ interesse relativo al soggetto indicato. La prima casella era “Io e la mia famiglia oggi” ed era tutta piena di puntini. Man mano che si andava avanti, “il mio paese”, la “cultura”, “l’ umanità”, i puntini si diradavano. E ancora “domani”, “fra un anno”, “fra dieci”, sempre meno. La casella “Il futuro dell’ umanità” aveva un solo puntino. Ecco. Un figlio è visto sempre più come bene individuale della coppia e della donna, non della società. Ma il venir meno della sua valenza di bene collettivo si riverbera nell’ assenza di interventi per sostenere lo sviluppo demografico.

Quanto conta la ricchezza?
Si pensa sempre che siano i paesi poveri a fare più figli ed è vero. I figli sono considerati un investimento: in Africa sono una risorsa. Non serve una stanza in più, portarli a nuoto o a danza. A cinque anni già conducono le pecore al pascolo. Eppure anche in alcuni Paesi ricchi dell’ Ue si fanno più figli, questo perché ci sono servizi e attenzione al tema. L’Italia è l’ unico Paese che dà più ai pensionati che alle madri. Il sistema è rovesciato. Così, se non hai dove mettere il figlio mentre lavori, è un problema. O se lo hai, costa molto.

Se invece hai l’ asilo nido, la possibilità di lavorare, due stipendi e aiuti forti, dalla detassazione ai contributi – non un bonus da 80 euro – allora è chiaro che fai più figli. Ci sono sondaggi, per quel che valgono, che dicono che le donne vogliono avere figli. E se si chiede loro quanti, rispondono “due”. In Francia, ad esempio, tutti possono disporre di scuole materne, asili nido, sia nel quartiere che nelle aziende. E la media è di due figli per donna.

Perché non si investe su questo, allora?
I pensionati votano, i neonati no. Investire sulle persone anziane dà un risultato visibile immediato mentre investire sulla natalità significa vedere i risultati a 20 anni di distanza. Nella vita sociale ci sono tre segmenti: lo studio, il lavoro e la pensione. Un tempo lo studio era poco, il tempo di lavoro lungo, la pensione breve perché si moriva subito. Era un sistema sostenibile. Oggi tutto è rovesciato, pochi figli dovranno mantenere molti anziani – oltretutto sempre più costosi – e pagare le loro pensioni. Una volta c’ erano due figli per un genitore superstite, oggi due genitori superstiti per un figlio. Queste cose si pagano.

La demografia ci presenta un quadro inquietante.

Quale?
Che società può essere una di soli vecchi? Oggi i centenari sono circa 117mila, nel 2050 si stima saranno 150mila. Anche a me piacerebbe arrivare a 200 anni, ma solo se in motocicletta e con una bionda sul sellino posteriore, non inebetito su una sedia a rotelle.

I migranti possono colmare il gap di natalità?
Andiamo verso una società tecnologica in cui occorrono specializzazioni e innovazione ma con gli ascensori sociali già bloccati: riusciremo a non lasciarli indietro e a integrare soprattutto le seconde generazioni? Se sì, bene, altrimenti rischiamo di diventare un paese di braccianti e tornare a una società dell’ 800.

Noi non ci saremo

Noi non ci saremo. Noi non ci saremo ai prossimi mondiali di calcio ed a chissà quali altri eventi della Storia. Come Italia e come italiani.

(..) E il vento d’estate che viene dal mare
intonerà un canto fra mille rovine,
fra le macerie delle città, fra case e palazzi che lento il tempo sgretolerà,
fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo.
E dai boschi e dal mare ritorna la vita,
e ancora la terra sarà popolata;
fra notti e giorni il sole farà le mille stagioni e ancora il mondo percorrerà
gli spazi di sempre per mille secoli almeno,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo,
ma noi non ci saremo…

Non ci saremo perché semplicemente non ci saremo.

Non ci sono più i numeri per invertire la tendenza demografica, sociale ed economica declinante dell’Italia. Andiamo verso l’estinzione. È dalla fine della prima Repubblica che l’Italia sta lentamente morendo. Piano piano si stanno vedendo i risultati di totale mancanze di politiche a medio-lungo termine. Il calcio perfetto specchio dell’Italia. Una classe dirigente nella politica e nell’economia vecchia, totalmente incapace di creare alcun valore aggiunto e maggior benessere per le generazioni a venire, anzi..
E se per il calcio probabilmente si è toccato il punto limite, purtroppo per la società italiana questo toccare il fondo ancora dovrà arrivare. E basta leggere persone intelligenti come ad esempio Bagnai o Barnard per capire la fine che faremo.

A tal proposito, oggi mi vengono in mente alcune parole di due “vecchi” che ho ammirato e che hanno fatto della ricerca e della divulgazione la loro missione di vita: Piero Angela e Tiziano Terzani.

In un’intervista ripresa da dagospia Piero Angela alla domanda di cosa auspicasse per i giovani ha affermato: «La capacità di informarsi correttamente, con strumenti affidabili. I giovani avranno davanti un futuro non facile, perché tutto cambia troppo velocemente. E poi siamo destinati a fare i conti con un mondo diverso, fatto di vecchi, immigrati e pochi bambini. Il dramma della longevità è che va di pari passo con la denatalità, con una spesa sociale per le famiglie troppo bassa».

Nel 2008 con il suo libro Perché dobbiamo fare più figli? ci metteva in guardia sul problema demografico in Italia:

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Prendete un mazzo di carte da gioco e posatelo sul tavolo. Chiedete ad un amico di “tagliare” il mazzo di dividerlo in due. Le 52 carte, una volta dimezzate, si ridurranno a 26.
Fate tagliare una seconda volta: ne rimarranno 13. Dopo un terzo taglio le carte si ridurranno a 6 o 7.
In soli tre tagli, cioè, il mazzo è passato da 52 a 6 o 7 carte.
Per le nuove generazioni italiane sta succedendo qualcosa del genere. A ogni ricambio generazionale i neonati si stanno quasi dimezzando. 
In tutti questi anni si è parlato soprattutto della sovrappopolazione nel mondo e dei rischi connessi. Ed è vero. È una grave distorsione che pagheremo cara. Ma questa esplosione demografica ha avuto luogo nelle regioni più povere del pianeta: quelle che faranno salire a oltre 9 miliardi la popolazione mondiale nel 2050.
Accanto questo squilibrio ve ne è un altro, di segno opposto, che si sta verificando nei paesi sviluppati, e in particolare l’Italia: l’eccesso di denatalità. L’Italia è fra i paesi al mondo dove nascono meno figli. E questo sta portando a conseguenze traumatiche. Perché in questo caso non si tratta più di una sana ed auspicata riduzione della popolazione (che comunque in Italia sta avvenendo), ma anche qui di una distorsione pericolosa soprattutto per la velocità con cui si verifica.

Nell’ultimo capitolo di Un altro giro di giostra Terzani dopo averci fatto girovagare per il mondo alla ricerca di sé e della miglior guarigione per il proprio cancro (che lo porterà alla morte nel 2004) ci rende partecipe di alcune considerazioni sulla fine del suo viaggio.
Sono riflessioni che possono valere per qualsiasi cosa e persona. Una vita, una famiglia, una nazione, una partita di calcio. Un altro giro, un’altra fine e un altro inizio.

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[…] Alla fine tutto va messo alla prova: le idee, i propositi, quel che si crede di aver capito e i progressi che si pensa di aver fatto. E il banco di prova è uno solo: la propria vita. A che serve essere stati seduti sui tallone per ore e ore a meditare se non si è con questo diventati migliori, un po’ più distaccati dalle cose del mondo, dai desideri dei sensi, dai bisogni del corpo? A che vale la pena predicare la non violenza se si continua a profittare del violento sistema dell’economia di mercato? A che serve aver riflettuto sulla vita e sulla morte se poi, dinanzi a una situazione drammatica, non si fa quel che si è detto tante volte bisognerebbe fare e si finisce invece per ricadere nel vecchio, condizionato modo di agire? […]
Un lieto fine questo?
E che cos’è lieto, in un fine? E perché tutte le storie ne debbono avere uno? E quale sarebbe un lieto fine per la storia viaggio che ho appena raccontato? “…e visse felice e contento”? Ma così finiscono le favole che sono fuori dal tempo, non le storie della vita che il tempo comunque consuma. E poi chi giudica ciò che è lieto e ciò che non lo è?
A conti fatti anche tutto il malanno di cui ho scritto è stato un bene o un male? È stato, e questo è l’importante. È stato, e con questo mi ha aiutato, perché senza quel malanno non avrei mai fatto il viaggio che ho fatto, non mi sarei mai posto le domande che, almeno per me, contavano.
Questa non è un’apologia del male o della sofferenza – e a me ne è toccata ancora poca. È un invito a guardare il mondo da un diverso punto di vista e a non pensare solo in termini di ciò che ci piace o meno.
E poi: se la vita fosse tutto un letto di rose sarebbe una benedizione o una condanna? Forse una condanna, perché se uno vive senza mai chiedersi perché vive, spreca una grande occasione. E solo il dolore spinge a porsi
la domanda.
Nascere uomini, con tutto quel che comporta, è forse un privilegio. Secondo i Purana, le antiche storie popolari indiane, persino le creature celesti a cui tutto era dato e che conoscevano solo il bello, il bene, la gioia, dovevano a un certo punto nascere uomini, appunto perché anche loro potessero scoprire il contrario di tutto questo e capire il significato della vita. E la prova non può essere che su sé stessi. Bisogna personalmente fare l’esperienza per capire. Altrimenti si resta solo alle parole che di per sé non hanno alcun valore, non fanno né bene né male. 
[…]


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