È uscito da poco il report INEQUALITY AND PROSPERITY IN THE INDUSTRIALIZED WORLD: addressing a growing challenge a cura di Citi GPS e Oxford Martin School che fa il punto sulla situazione delle disuguaglianze nelle economie industriali.
#stefanobosso ph., Al Khawr, 2017
Cosa sono le disuguaglianze? Come si misurano? Con quali le conseguenze?
Il Dizionario di Sociologia di Luciano Gallino dà della disuguaglianza sociale la seguente definizione: Molte differenze oggettive esistenti tra i membri di una collettività, specie in campo economico e giuridico, o tra un insieme di individui qualsiasi e i loro gruppi di riferimento tendono a essere socialmente definite come disuguaglianze, e a causare azioni e reazioni volte a eliminarle, allorché si verificano congiuntamente le seguenti condizioni: 1) dette differenze si esprimono sotto forma di possesso di quantità più o meno grandi di risorse socialmente rilevanti, ovvero in una maggiore o minore possibilità di accesso a uno status superiore; 2) sono considerate il prodotto di meccanismi di selezione sociale intesi a mantenere un dato ordine sociale, più che del merito o delle doti individuali, ovvero – a seconda del lato delle differenze cui ci si riferisce – dell’assenza di merito o di doti appropriate; 3) appaiono, almeno in linea di principio, superabili mediante azioni dirette a modificare i meccanismi di selezione, o a eliminarli, trasformando più o meno radicalmente l’ordine sociale a cui si ritengono connaturati; 4) sono interpretate dalla coscienza sociale dei soggetti più sfavorevoli, o dai loro portavoce intellettuali o politici, come una ingiustizia.
Le principali disuguaglianze osservabili in una società, connesse alle sue fondamentali strutture economiche e politiche, costituiscono un sistema di stratificazione sociale. A sua volta una classe sociale rappresenta una causa di disuguaglianza sociale se il termine è usato nell’accezione realista o organica; mentre una manifestazione delle disuguaglianze esistenti se si usa il termine secondo l’accezione nominalistica o ordinale.
Ampissima è la letteratura sul tema delle disuguaglianze. Per farsi un’idea, i primi libri che mi vengono in mente sono: La misura dell’anima di R. Wilkinson e K. Pickett, Disuguaglianze di M Franzini e M. Pianta, La grande frattura di J. Stiglitz, od anche Quanto è abbastanza di M. e E. Skidelsky.
Ma è nel libro di Ha-Joon Chang Economia. Istruzioni per l’uso che ho trovato una delle migliori spiegazioni. Il libro è una sorta di “Economics for dummies” e cerca di illustrare in modo chiaro ed intelligente i principali concetti per capire l’economia di oggi, con l’aiuto di molti pratici riferimenti e dati reali. Come sottolinea l’autore nell’introduzione: “La scienza economica è riuscita particolarmente bene a tenere a distanza il grande pubblico. La gente è sempre pronta a far sentire la propria opinione su qualunque cosa, pur non avendo le competenze necessarie: cambiamento climatico, matrimoni gay, guerra in Iraq, centrali nucleari.. Ma quando si parla di questioni economiche, molti non mostrano di avere alcun interesse, figuriamoci un’opinione chiara in merito. […] Se in economia non esiste un’unica risposta esatta, allora non possiamo lasciare tutto in mano agli esperti. In altre parole, ogni cittadino responsabile deve imparare un po’ di economia, il che non significa procurarsi un librone di testo e assimilare una prospettiva economica particolare. Ciò che serve studiare l’economia per essere consapevoli che esistono diversi tipi di tesi economiche e sviluppare lo spirito critico per valutare quale posizione sia più sensata in una determinata situazione e ala luce di determinati valori morali e obiettivi politici. […]”
Di seguito riporto un paio di paragrafi estratti dal capitolo “La capra di Boris dovrebbe crepare”.
Troppa disuguaglianza fa male all’economia: instabilità e mobilità ridotta
Non credo che siano in molti ad auspicare un egualitarismo estremo come quelli della Cina maoista o della Cambogia di Pol Pot. Tuttavia, molti sostengono che una disuguaglianza troppo accentuata sia un fattore negativo non solo dal punto di vista etico, ma anche in termini economici.
altri economisti hanno sottolineato che un altro livello di disparità riduce la coesione sociale, favorisce l’instabilità politica e, di conseguenza, frena gli investimenti. L’instabilità politica rende incerto il futuro e, di riflesso, la redditività degli investimenti, che per definizione si riscontra nel futuro. Minori investimenti significano minore crescita.
La disuguaglianza elevata accentua anche l’instabilità economica, che nuoce alla crescita. Quando un’altra percentuale del reddito nazionale è riservata alle persone più ricche, può darsi che il tasso di investimenti cresca, ma questo significa anche che l’economia sarà più soggetta all’incertezza e all’instabilità, come sottolineava Keynes. Molti economisti hanno anche evidenziato come la crescente disuguaglianza abbia svolto un ruolo di rilievo nella crisi finanziaria globale del 2008, soprattutto negli Stati Uniti, dove i redditi più alti sono lievitati, mentre i salari reali erano fermi dagli anni settanta. Per stare al passo con i nuovi standard di consumo, la gente comune si è indebitata e l’aumento del debito delle famiglie (in percentuale sul Pil) ha reso l’economia più vulnerabile agli shock.
Per altri, la disuguaglianza riduce la crescita economica perché limita la mobilità sociale. L’istruzione costosa che solo un’esigua minoranza può permettersi, ed è necessaria per ottenere posizione ben pagate, i legami personali all’interno di un gruppo ristretto e privilegiato (ciò che il sociologo Pierre Bourdieu chiamava “capitale sociale”), e persino la “sottocultura” delle élite (per esempio, modi di esprimersi e atteggiamenti che si acquisiscono nelle scuole più esclusive) possono fungere da ostacoli alla mobilità sociale.
Una mobilità ridotta significa che le persone capaci provenienti da ambienti poveri sono escluse dalle professioni più remunerative e sprecano il loro talento, provocando perdite sia a livello personale sia per l’intera società. Significa anche che tra coloro che occupano i posti più prestigiosi non c’è il meglio che la società potrebbe offrire se la mobilità sociale fosse maggiore. Se perdurano per generazioni, questi ostacoli spingono i giovani delle classi meno privilegiate a smettere persino di cercare posti di lavoro migliori. Ciò conduce a una sorta di riproduzione “endogamica” delle élite sul piano culturale e intellettuale. Se è vero che i grandi cambiamenti richiedono idee nuove e condotte anticonformiste, una società con un’élite autoreferenziale rischia di non riuscire a produrre innovazione. Ne segue un calo del dinamismo economico.
[…]
Note conclusive: perché troppa povertà e disuguaglianza non sono fuori dal nostro controllo
La povertà e la disuguaglianza sono diffuse in modo allarmante. Una persona su cinque nel mondo, vive ancora in condizioni di povertà assoluta, e persino in alcuni paesi avanzati, come Stati Uniti e Giappone, una su sei vive in povertà (relativa). Con l’eccezione di una manciata di paesi europei, la disuguaglianza di reddito assume proporzioni tra il grave e lo sconvolgente.
Fin troppe persone accettano tali condizioni come l’inevitabile effetto delle innate differenze di capacità tra gli individui. Ci viene chiesto di convivere con queste realtà nello stesso modo in cui si convive con terremoti e vulcani. Ma, come evidenzia questo capitolo, si tratta di sistuazioni soggette all’intervento umano.
Dato il considerevole livello della disuguaglianza in molti paese indigenti, la povertà assoluta (al pari di quella relativa) può essere ridotta anche senza un aumento della produzione, ma con un’appropriata ridistribuzione del reddito. Nel lungo periodo, però, per limitarla significativamente è necessario lo sviluppo economico, come ha dimostrato la Cina negli ultimi tempi.
I paese avanzati hanno praticamente sconfitto la povertà assoluta, ma alcuni presentano alte percentuali di povertà relativa e disuguaglianza. Il fatto che i tassi di povertà (relativa, 5-20 per cento) e i coefficienti di Gini (0,2-0,5) varino in modo significativo tra questi paesi suggerisce che in quelli con maggior povertà e disuguaglianza, come gli Stati Uniti, è possible ridurre notevolmente questi fenomeni con un intervento dello stato.
Chi si ritrova in miseria, inoltre, dipende molto dagli interventi pubblici. Per cercare di uscirne con le proprie forze, deve poter contare su condizioni più eque per i bambini (migliori misure di welfare e istruzione), maggiori possibilità di accesso al lavoro (abbattimento delle discriminazioni e delle “caste” ai livelli più alti) e lotta alla manipolazione dei mercati da parte di ricchi e potenti.
Nella Corea preindustriale si diceva che “persino il re più potente non può fare nulla contro la povertà”. Se mai questa affermazione è stata vera, oggi non lo è più. Il mondo produce a sufficienza per eliminare la povertà assoluta. Anche senza una redistribuzione globale del reddito, qualsiasi paese, tranne i più poveri, produce a sufficienza per sconfiggerla. La disuguaglianza non può essere eliminata del tutto, ma con opportune politiche potremmo vivere in società eque, come molti norvegesi, finlandesi, svedesi e danesi potrebbero raccontarvi.
Un paio di vecchi articoli con Ha-Joon Chang:
Economics is too important to leave to the experts
Five minutes with Ha-Joon Chang: “Members of the general public have the duty to educate themselves in economics”
Tornando al report Inequality and Prosperity in the Industrialized World, di seguito riporto alcuni estratti:
[…] Against this background, our research program will focus on identifying the impacts
of inequality on economic growth potential, social cohesion, and the political
process. On the back of this, we shall collaboratively suggest a coherent set of
responses that would address rising inequality in a manner that promotes inclusive
growth.