Pensare a lungo termine

Di seguito la parte finale del capitolo “Pensare a lungo termine” del libro Il coltellino svizzero di Annamaria Testa.

Il coltellino svizzero. Capirsi, immaginare, decidere e comunicare meglio in un mondo che cambia - Annamaria Testa - copertina

[…] La pervasività del pensiero a breve termine ostacola gli investimenti nella sanità, nell’istruzione e nell’apprendimento permanente, nelle infrastrutture, nella ricerca di base, e per il contrasto all’emergenza climatica e la riduzione delle disuguaglianze.
“Viviamo in un’epoca di breveterminismo patologico”, dice il filosofo sociale Roman Krzanaric. Il quale afferma che nei confronti del futuro abbiamo sviluppato un’attitudine colonizzatrice. Come se si trattasse di un enorme avamposto vuoto, che non appartiene a nessuno perché nessuno lo sta (ovviamente) abitando ora, e sul quale noi possiamo dunque accampare diritti. Un luogo in cui scaraventiamo scorie nucleari, debito pubblico, rischi climatici e tecnologici. E che possiamo tranquillamente rapinare, dato che a presidiarlo non c’è nessuno. 
Eppure, nel futuro noi cominciamo ad abitare giorno dopo giorno.

Certo: se restringiamo il nostro pensiero al “qui e ora”, il traguardo del 2100 continua ad apparirci davvero lontano. Ma i bambini che oggi hanno pochi anni potranno facilmente vederlo, l’inizio del prossimo secolo. Tra loro possono esserci i nostri figli, i nostri fratelli minori, i nostri nipoti.
Se i progressi della medicina continuano ad accrescere la durata media della vita, e se si incrementano le pratiche di successful ageing, nel 2100 quei bambini che oggi ci sono così cari, e i loro coetanei, avranno ancora davanti a sé anni di vita, e forse qualche decennio. E poi, naturalmente, c’è la schiera infinita dei bambini che ancora devono nascere.
L’idea della solidarietà intergenerazionale considera l’impatto che decisioni prese oggi possono avere sulle generazioni successive alle nostre,  a cominciare da quella a cui appartengono i figli, i fratelli minori e i nipoti. Stiamo parlando di un futuro che, riguardando loro, riguarda anche noi.
Cerca il benessere di tutto il popolo, e abbi sempre davanti al tuo sguardo non solo il presente, ma anche le generazioni che verranno, perfino quelle i cui volti sono ancora oltre la la superficie della terra – i non ancora nati della Nazione futura.
Il principio delle Sette generazioni è tratto dalla Grande legge di pace degli haudenosaunee, la legge orale fondante della Confederazione degli irochesi, Si tratta i prendere ogni decisione tenendo a mente il bene delle sette generazioni future: un arco di tempo di circa centrocinquant’anni.
Visioni analoghe ricorrono in diverse culture indigene. Dovremmo osservarle con maggior rispetto e attenzione perché è paradossale il fatto che, quanto più ci rendiamo capaci di determinare le sorti dell’intero pianeta, e quanto più efficaci sono gli strumenti di cui disponiamo per comprendere il nostro potere e i rischi , tanto meno sembriamo propensi a farcene carico.

Cerchiamo di coltivare una dose di consapevolezza. Osserviamo le nostre motivazione e i nostri pensieri, e governiamoli. Guardiamoci attorno con attenzione e meraviglia. Commuoviamoci quando serve, ma indigniamoci quando serve. Ricordiamo che stiamo condividendo un piccolo pianeta, bellissimo e fragile.

Il discorso della nonna

Di seguito il “discorso della nonna” tratto dal film “Figli” del 2020 di Giuseppe Bonito.

“Voi dovete capire bene una cosa una volta per tutte. Noi anziani siamo una forza silenziosa e tranquilla, ma se ci incazziamo sono dolori. Perché siamo di più. Siamo tantissimi. Ogni 100 giovani ci sono 165 anziani. E questo significa maggioranza assoluta, e cioè, virtualmente, Camera Senato e governo della Repubblica. Abbiamo le tv, perché condizioniamo palinsesti e linee editoriali: Sanremo è fatto per noi, e così anche la grande fiction nazional-popolare. Gli inserzionisti pubblicitari, intorno a cui ruota il mondo, hanno noi come chiodo fisso. Le case di proprietà e i libretti di risparmio su cui regge l’intera economia di questo paese – e senza i quali chiudevamo come la Grecia – sono in mano nostra. Il teatro tiene grazie a noi, e così anche quel che resta del cinema. E con il nodo pensioni teniamo in scacco l’intera economia nazionale. Ci manca solo un po’ più di consapevolezza e coesione, e saremo pronti, finalmente, a fare il culo a tutti”.

IV Rapporto sul divario generazionale

E’ online il Rapporto 2021 sul Divario Generazione dal titolo “Il Divario Generazionale attraverso la pandemia, la ripresa e la resilienza”, (curato dai professori Luciano Monti e Fabio Marchetti) e presentato il 10 marzo scorso presso il Campus Luiss Guido Carli di Viale Pola.

Copertina Rapporto 2021 Divario generazionale.jpg

Per una più precisa disamina dell’incontro si rimanda a Il divario generazionale nel quarto rapporto della Fondazione Bruno Visentini.

Nella presentazione del 10 marzo il Professor Marchetti ha illustrato quali siano le quattro raccomandazioni per il paese per diminuire questo divario:

1) Valutazione dell’impatto generazionale – richiesta che, attraverso il COVIGE (Comitato per la valutazione dell’impatto generazionale delle politiche pubbliche) ha fatto un ’importante passo in avanti.

2) Patto per l’occupazione giovanile – incentivi alle imprese per l’assunzione dei giovani, garantendo contratti sicuri e permanenti.

3) Sistema pensionistico integrativo e riduzione della pressione fiscale – i giovani devono guadagnare la loro maturità contributiva, per cui il sostegno nei primi loro anni lavorativi dovrebbe essere maggiore.

4) Reddito opportunità per il Mezzogiorno – offrire ai giovani uno strumento unico che permetta loro di ottenere aiuti e incentivi riguardo la transizione tra la scuola il lavoro, la ricerca e sviluppo, la formazione e l’occupazione, il sostegno ai nuclei familiari. Lo strumento potrebbe essere realizzato attraverso la Legge di Bilancio del 2022 o con il PNRR.

Secondo la presentazione del Rapporto dalla pagina ufficiale dell’Osservatorio delle politiche giovanili:

Non è più tempo di analisi degli effetti del divario generazionale che penalizza i giovani (alto numero di Neet, povertà giovanile, dispersione scolastica); è tempo di rimuovere stabilmente le cause che lo hanno generato nei due decenni passati.

Il cambio di paradigma e il ripensamento strutturale delle politiche pubbliche “generazionali” – o comunque atte ad impattare sul fenomeno del divario – richiedono un impegno che sia duraturo nel tempo – secondo il Rapporto curato dai professori Luciano Monti e Fabio Marchetti – volto non tanto a calmierarne gli effetti sopra menzionati, ma a rimuoverne la rigidità del mercato del lavoro, il basso collegamento tra quest’ultimo e il mondo della scuola e gli ostacoli all’imprenditorialità, nonché a promuovere l’innovazione e lo sviluppo di nuove competenze.

Livelli di disuguaglianza generazionale senza precedenti; un’analisi delle strategie per rimuoverne strutturalmente le cause e il cambio di passo del Governo sulle politiche giovanili, nel secondo semestre 2021: sono queste le principali traiettorie emerse dal “IV Rapporto sul Divario Generazionale”.

All’interno del Rapporto, il nuovo “Indice di Divario Generazionale 3.0” (GDI – Generational Divide Index 3.0), frutto del costante aggiornamento e affinamento dello strumento di rilevazione e misurazione del divario a cura dell’Osservatorio sulle Politiche Giovanili (www.osservatoriopolitichegiovanili.it), ha mostrato livelli di diseguaglianza generazionale mai riscontrati prima.

La misurazione per il 2020 – fatto 100 il 2006 – rileva, infatti, 142 punti, ben oltre il picco registrato nel 2014 (138 punti), con un incremento sull’anno precedente (+12 punti). Questo dato conferma il fatto che le crisi sistemiche che colpiscono il nostro Paese, in questo caso la pandemia, hanno sempre un impatto generazionale asimmetrico che ricade maggiormente sulle fasce più giovani. In tal senso, è inizialmente sembrata un’occasione mancata la scelta di non inserire all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza una missione specifica per i giovani, dato che le risorse previste per le prossime generazioni rappresentano una percentuale poco significativa. Secondo l’elaborazione della Fondazione Bruno Visentini, le misure generazionali stimate ammontano a 3,97 miliardi di euro per il periodo 2021-2026, pari al 2,08% sul totale delle risorse del Recovery and Resilience Facility. Gli interventi a carattere potenzialmente generazionale hanno, invece, un’incidenza del 2,9% sulle risorse stanziate dal Piano, portando complessivamente gli interventi per i giovani nel PNRR a circa il 5%. Anche nella legge di Bilancio 2021, peraltro in continuità con quella dei governi precedenti, le misure impattanti sui giovani – secondo il Rapporto – si presentavano disarticolate e complessivamente non commisurate all’importanza della sfida, alla permanenza di un vero e proprio esercito di NEET e alla fuga del capitale umano.

Manifesto pigro

Di seguito l’estratto “Manifesto pigro” tratto dal libro del 1996 di Steve Mizrach Manifesto X (tit. orig. Slackers Manifesto).

X manifesto - Steven Mizrach alias Seeker 1 - Theoria | eBay

La nostra generazione non sa neppure come chiamarsi. “Ventiqualcosa” è appena un termine descrittivo. Il termine baby busters indica che siamo il fallimento dopo i boomers, la brezza leggera dopo il terremoto giovanile, il grande tracollo demografico.
Forse ha ragione Douglas Coupland quando ci chiama generazione X.
Non per Malcom, ma perché siamo inqualificabili: un assoluto fattore x. Paradoxali. Nessuno sa chi parla per noi, quale nicchie di mercato occupiamo, quali sono le cose più vicine ai nostri cuori.
Rappresentiamo un enigma per i nostri predecessori, e forse lo saremo anche per la generazione che ci seguirà: i cosiddetti figli del millennio, nati dopo il 1981.
La generazione X è fatta di slackers, hackers (prehackers, cyberpunk, neuoronauti) e new jackers, quella gioventù urbana sempre disponibile e profeta della Hiphoprisy [cfr. The Disposable Heroes of Hiphoprisy].
Siamo ravers e surfisti Atari, settantofili che zoomano avanti e indietro senza un posto dove andare.
Secondo la maggior parte dei demografi conosciamo meglio la cultura pop e la strada, un po’ peggio i classici, l’etica e le materie principali (e in particolare geografia, educazione civica e storia: dove, in poche parole, sembra che siamo una disgrazia accademica).
Molti di noi non leggono, né votano e sono certi di non averne alcuna intenzione.
I sondaggi dicono che siamo più propensi ad affrontare rischi, intenzionati a fare cose che con ogni probabilità si risolveranno in un autodanneggiamento, e più materialisti dei nostri predecessori, i boomers.
Dicono che siamo meno ambiziosi, meno idealisti, che abbiamo meno principi morali, meno interessi e meno disciplina di ogni generazione precedente di questo secolo.
Siamo la generazione con più aborti, carcerati, suicidi; la più incontrollabile, indesiderata, imprevedibile della storia. (Così almeno sostengono gli autori della tredicesima generazione).
Se si dà un’occhiata alle organizzazioni politiche  che aggregano la nostra generazione, non si vedranno yippies, SDS, diggers, o weathermen [Organizzazioni politiche americane nate negli anni ’60-70. Tra tutti i weathermen si distinguevano per l’estremismo delle loro posizioni, spesso sfociati in pratiche di azione diretta (n.d.t.)].
Al posto loro ci sono gruppi come Lead or Leave e Rock the Vote, che al massimo del loro radicalismo spiegano alla gente di votare contro la censura e di chiedere ai politici di assumersi l’impegno di ridurre il deficit o di lasciare l’incarico.
É tutta qui la coscienza sociale, è tutto qui il radicalismo della nostra generazione? Dare la colpa ai vecchi e ai pensionati per una crisi di deficit che non hanno creato? Contrapporre i giovani ai vecchi? Sicuramente possiamo fare di meglio! Ci sono venti e più gruppi lì fuori che combattono per i senzatetto, che lavorano per l’ambiente e che lottano per una riforma dell’insegnamento ma di chi i media non sembrano accorgersi mai. Se volessimo veramente il problema del deficit dovremmo occuparci di titoli e, allo stesso tempo, fare i conti con la voracità onnivora delle spese militari..
La buona notizia è che siamo una generazione che crede poco alle chiacchiere e molto all’azione. Rifuggiamo ideologie e dogmi a favore di un pragmatismo essenziale in tutti i campi della vita. Siamo meno prevenuti e meno sessisti di ogni generazione precedente, eppure i sondaggi dimostrano, stranamente, che siamo facilmente soggetti al bigottismo.
In quanto generazione, molti di noi sentono il dovere di riportare ordine nella confusione lasciata dai nostri predecessori.
La nostra attenzione è rivolta più al futuro che al passato – siamo stanchi di tutto questo schifo di nostalgia “retrò”.
La maggior parte di noi detesta la propria infanzia e la cultura di scarto di quel periodo (nonostante questa sembri essere continuamente riciclata in film e in spettacoli tipo Brady Bunch) [La più nota serie televisiva americana degli anni 70 (n.d.t.)] ed è restia a vedere la propria vita familiare come qualcosa di idilliaco o come “gli anni più belli della mia vita”.
Siamo rabbiosamente indipendenti ed auto-motivati, in grado di ottenere qualsiasi cosa vogliamo in qualsiasi circostanza.
Disprezziamo i New Agers dei nostri tempi – non per i grandi ideali che sbandierano ma perché non riescono mai a realizzarli.
Siamo i partigiani del Nuovo limite, intenzionati a esplorare nuovi luoghi, a trascendere i vecchi confini, a pensare più in grande di chiunque altro.
Nonostante il fatto che, come generazione, sembriamo aver accettato uno standard di vita peggiore di quello dei nostri genitori, presi uno per uno esprimiamo un ottimismo personale Quasi incredibile “Ce la farò, costi quel che costi”.
ODIAMO essere categorizzati, trattati come massa indistinta o etichettati.
Anche questa lunga lista di generalizzazioni risulta composta solo di approssimazioni – tendenze che qualche Xer, da qualche parte, si sta scrollando di dosso.
Nessuno sa quale musica ci piace: rap, punk, progressive, industrial, acid house, eurotrash, technorave, hip-hop, world beat, o niente di tutto questo.
Non c’è niente che ci definisca come il Rock’n’Roll fece con i boomers.
Le statistiche sui nostri consumi portano i mercanti a listeria; le loro pubblicità sostengono di sapere che cosa ci piace e come siamo, ma si sbagliano sempre.
Anche i nostri credo politici trascendono le definizioni. La maggior parte di noi vive con la massima che “ogni politica è locale”. Sentiamo di essere nati dopo che due grandi rivoluzioni sono cominciate, finite e riassorbite.
La rivoluzione sessuale ci ha lasciato il divorzio l’AIDS, l’herpes, stupri all’ordine del giorno e gravidanze adolescenziali alle stelle. Al posto dell’esplorazione della sessualità, c’è rimasto il caos sessuale.
Per di più sembra che nessuno di noi si scambi più degli appuntamenti. Certo, facciamo ancora del sesso, ma non ci innamoriamo più. La rivoluzione delle droghe ci ha lasciato il crack, il PCP e l’eroina. Le bande giovanili di oggi sono troppo preoccupate per il loro territorio per aver voglia di turn on and tune out [Slogan che negli anni ’60, invitava all’assunzione di LSD. Letteralmente “Sballati e stacca la spina” (n.d.t.)]. Siamo più “conservatori” dei nostri genitori solo nel senso che sentiamo che hanno affrontato le loro rivoluzioni nel modo sbagliato. Qualcuno di noi cerca ancora l’amore libero e Il vero viaggio mentale, ma vogliamo farlo meglio dei boomers: questo è il nostro motto.
Tra noi c’è chi prevede un vero e proprio stato di guerra generazionale con i boomers. Personalmente non credo. Ma tutto sommato penso che il nostro odio per i boomers sia gelosamente nascosto. Figurarsi: una generazione che credeva di poter cambiare il mondo!
Siamo fortunati se riusciamo a sopravvivere: credere a una cosa così sorprendente è fuori discorso. Riconosco di invidiare i boomers. Le cose di cui mi interesso – l’espansione della coscienza, la liberazione dell’uomo, una società veramente giusta, equa e imparziale, un mondo unito e in pace, l’umano progresso e la diffusione della tecnologia – sembrano una rivisitazione degli slogan degli anni ’60. Gli scopi sono rimasti gli stessi, ma completamente differenti.
Noi siamo più furbi; loro vestivano i loro slogan apertamente, noi li nascondiamo.
Non per impedire agli altri di vederli, ma perché sappiamo che l’invisibilità è un’arma.
Alcuni demografi hanno assegnato alla nostra generazione un penoso compito “retrò”.
Dicono che ripristineremo i “valori familiari” dopo l’attacco alla famiglia degli anni ’60 e ’70. Che restaureremo i valori “comunitari” degli anni ’50 – quando tutti si fidavano dei propri vicini e lasciavano le porte aperte perché potessero entrare – dopo i crimini e la disintegrazione civile degli anni successivi. Che riporteremo la dignità di quegli anni – , sapete, quando la gente era pulita, ordinata, disciplinata, uniforme, ecc. NO! In realtà noi figli degli anni ’70 non riporteremo gli anni ’50 fra di noi.
Al contrario faremo sembrare il caos degli anni ’60 roba da bambini – perché lo era. Siamo qui per portare il cambiamento – improvviso e traumatico se vi saremo costretti. Siamo pronti a sanare ogni frattura: tra gli uomini e la natura, tra gli uomini e la tecnologia, e soprattutto tra l’uomo e l’altro.

Una generazione sull’orlo della più grave emergenza

Di seguito un piccolo estratto del capitolo 4 “Instabilità: forte aumento dei problemi di salute mentale” di Jean Marie Twenge Iperconnessi (titolo originale: iGen. Why Today’s Super-Connected Kids Are Growing Up Less Rebellious, More tolerante, Less Happy – and Completely Unprepared for Adulthood – and What That Means for the Rest of Us) del 2017, in cui si mettevano in evidenza alcuni caratteri problematici delle generazioni più giovani. Se qualche anno fa il quadro che emergeva dalla ricerca della Twenge era quella di “una generazione sull’orlo della più grave emergenza di salute psicologica giovanile” oggi con la pandemia e i vari lockdown in corso, le conseguenze psicologiche e sociali che i più giovani subiranno sono difficilmente immaginabili.

Copertina del libro Iperconnessi di Jean M. Twenge

Ilaf Esuf, studentessa a Berkeley, Università della California, era a casa durante un periodo di vacanza quando è successo. Era stata a far compere con sua madre e rientrando si è sentita sopraffatta dalla tristezza e ha cominciato a piangere. “Ho parcheggiato nel vialetto, ho inzuppato di lacrime le maniche con cui cercavo di asciugarmi gli occhi di nascosto, – ha scritto sul “Daily Californian”. – Mia madre era sbalordita. Mi ha stretto il braccio, mi ha chiesto perché piangevo, ma non ho saputo risponderle. Quella tristezza inesplicabile, imprevedibile non voleva andarsene, come mia madre che è rimasta ferma accanto alla porta, preoccupata, disperata, ad aspettare che le cose riprendessero un senso”. Ilaf non sa sempre con precisione perché si sente depressa, e fatica a spiegarlo ai genitori. “Non so cosa c’è che non va e non perché mi sento così, ma giuro che sto bene, che passerà. E’ quello che mi dico quando cammino per la strada e sento le lacrime che mi scorrono sul viso”.

Gli iGen in rete sembrano così felici, con le loro smorfie buffe su Snapchat e i sorrisi nelle foto di Instagram. Ma se si scava un po’, si scopre una realtà molto meno confortante. Questa generazione è sull’orlo della più grave emergenza di salute psicologica giovanile da decenni. In superficie, però, va tutto liscio come l’olio.


Si v. ad es. gli ultimi articoli: – Nel tredicesimo mese dell’anno. La questione giovanile dentro la crisi, su Avvenire.it, 15.01.2021
L’allarme del Bambin Gesù: “I giovanissimi si tagliano e tentano il suicidio: mai così tanti”, su Huffington Post, 19.01.2021
La generazione perduta del Covid: buchi di apprendimento del 30-50%, su Il Sole24Ore, 11.01.2021

Un paese per dinosauri

Di seguito riporto un bell’articolo di Virginia Della Sala per “il Fatto quotidiano” sulla presentazione del libro di Antonio Golini e Marco Valerio Lo Prete Italiani poca gente avvenuta il 13 maggio 2019 e di cui Piero Angela ha scritto la prefazione (via Dagospia). 

ITALIANI POCA GENTE

Piero Angela ha quasi 91 anni. “Lo dico con un pizzico di civetteria, ho un po’ di ernia del disco ma la macchina funziona ancora. Farò il quarto Quark tra qualche mese!” spiega sorridendo quando lo incontriamo alla Società Geografica Italiana per parlare di demografia e del libro di Antonio Golini e Marco Valerio Lo Prete, Italiani poca gente (Luiss University Press) di cui Angela ha scritto la prefazione. Piero Angela, oggi presenta un libro sulla denatalità in Italia. Siamo sempre meno.

Come mai?
In generale, e nella nostra politica in particolare, non c’è una visione di lungo termine.

La crisi demografica è la conseguenza di programmi tarati solo sul consenso immediato. Cambiare politica è facile e veloce, cambiare la demografia no. C’è una bellissima metafora usata da Antonio Golini: in un orologio, le lancette dei secondi rappresentano la politica, quelle dei minuti l’economia, quelle delle ore la demografia. Ma sono quest’ultime a dirti che ora è. Sembrano ferme, ma segnano il tempo.

Perché siamo passati dalla media di 2,7 figli per donna del 1964 a poco più di uno?
Quando è nato mio padre, nel 1874 (era un contemporaneo di Garibaldi!) la società italiana era contadina, al 70% analfabeta, con una vita breve e grama. Poi, dall’ analfabetismo di massa si è passati all’ università di massa, il reddito è aumentato, la vita delle persone si è trasformata. Certo, non è stato merito della politica, che non è mai servita a nulla: la democrazia è frutto di innovazione, energia, educazione, valori, comunicazione. Se lei fosse nata all’ epoca di mio padre, si sarebbe sposata a 16 anni. Invece quanti anni ha e quanti figli ha?

Trenta e niente figli.
Ecco. Sui registri matrimoniali dell’800, l’ 80% delle spose firmava con la croce.

Cosa poteva fare una donna che firmava con la croce se non sposarsi e fare dei figli? A quei tempi, lei avrebbe già avuto cinque figli e starebbe badando alla casa in campagna. E io sarei con le scarpe piene di fango a governare le mucche.

E oggi?
A 25 anni neanche ci si pensa, giustamente. La società moderna è frutto di un processo di liberazione dell’ uomo, ancor di più della donna. Le studentesse sono più degli studenti, si laureano prima e con voti migliori. La superiorità del maschio è stata smentita dall’accesso delle donne all’ istruzione. Qualunque ragazza che si laurei non vuole subito dedicarsi ai pannolini, sa che con la routine familiare alcune attività le sarebbero precluse. Quindi ritarda l’ arrivo di un figlio. Ma più lo si ritarda più diventa difficile farlo e quando arriva, ci si ferma a uno.

Come mai non se ne parla abbastanza?
A nessuno importa del futuro. Nel Rapporto sui limiti dello sviluppo realizzato ormai 50 anni fa c’era una tabella che è ancora valida: tanti quadratini delineavano lo spazio e il tempo e in ognuno bisognava segnare con un punto l’ interesse relativo al soggetto indicato. La prima casella era “Io e la mia famiglia oggi” ed era tutta piena di puntini. Man mano che si andava avanti, “il mio paese”, la “cultura”, “l’ umanità”, i puntini si diradavano. E ancora “domani”, “fra un anno”, “fra dieci”, sempre meno. La casella “Il futuro dell’ umanità” aveva un solo puntino. Ecco. Un figlio è visto sempre più come bene individuale della coppia e della donna, non della società. Ma il venir meno della sua valenza di bene collettivo si riverbera nell’ assenza di interventi per sostenere lo sviluppo demografico.

Quanto conta la ricchezza?
Si pensa sempre che siano i paesi poveri a fare più figli ed è vero. I figli sono considerati un investimento: in Africa sono una risorsa. Non serve una stanza in più, portarli a nuoto o a danza. A cinque anni già conducono le pecore al pascolo. Eppure anche in alcuni Paesi ricchi dell’ Ue si fanno più figli, questo perché ci sono servizi e attenzione al tema. L’Italia è l’ unico Paese che dà più ai pensionati che alle madri. Il sistema è rovesciato. Così, se non hai dove mettere il figlio mentre lavori, è un problema. O se lo hai, costa molto.

Se invece hai l’ asilo nido, la possibilità di lavorare, due stipendi e aiuti forti, dalla detassazione ai contributi – non un bonus da 80 euro – allora è chiaro che fai più figli. Ci sono sondaggi, per quel che valgono, che dicono che le donne vogliono avere figli. E se si chiede loro quanti, rispondono “due”. In Francia, ad esempio, tutti possono disporre di scuole materne, asili nido, sia nel quartiere che nelle aziende. E la media è di due figli per donna.

Perché non si investe su questo, allora?
I pensionati votano, i neonati no. Investire sulle persone anziane dà un risultato visibile immediato mentre investire sulla natalità significa vedere i risultati a 20 anni di distanza. Nella vita sociale ci sono tre segmenti: lo studio, il lavoro e la pensione. Un tempo lo studio era poco, il tempo di lavoro lungo, la pensione breve perché si moriva subito. Era un sistema sostenibile. Oggi tutto è rovesciato, pochi figli dovranno mantenere molti anziani – oltretutto sempre più costosi – e pagare le loro pensioni. Una volta c’ erano due figli per un genitore superstite, oggi due genitori superstiti per un figlio. Queste cose si pagano.

La demografia ci presenta un quadro inquietante.

Quale?
Che società può essere una di soli vecchi? Oggi i centenari sono circa 117mila, nel 2050 si stima saranno 150mila. Anche a me piacerebbe arrivare a 200 anni, ma solo se in motocicletta e con una bionda sul sellino posteriore, non inebetito su una sedia a rotelle.

I migranti possono colmare il gap di natalità?
Andiamo verso una società tecnologica in cui occorrono specializzazioni e innovazione ma con gli ascensori sociali già bloccati: riusciremo a non lasciarli indietro e a integrare soprattutto le seconde generazioni? Se sì, bene, altrimenti rischiamo di diventare un paese di braccianti e tornare a una società dell’ 800.

I giovani di oggi

Di seguito l’articolo The youth of today: Teenagers are better behaved and less hedonistic nowadays dell’Economist del 10.01.2018.

But they are also lonelier and more isolated

AT THE gates of Santa Monica College, in Los Angeles, a young man with a skateboard is hanging out near a group of people who are smoking marijuana in view of the campus police. His head is clouded, too—but with worry, not weed. He frets about his student loans and the difficulty of finding a job, even fearing that he might end up homeless. “Not to sound intense,” he adds, but robots are taking work from humans. He neither smokes nor drinks much. The stigma against such things is stronger than it was for his parents’ generation, he explains.

Young people are indeed behaving and thinking differently from previous cohorts at the same age. These shifts can be seen in almost every rich country, from America to the Netherlands to South Korea. Some have been under way for many years, but they have accelerated in the past few. Not all of them are benign.

Perhaps the most obvious change is that teenagers are getting drunk less often (see chart 1). They start drinking later: the average age at which young Australians first try alcohol has risen from 14.4 to 16.1 since 1998. And even when they start, they sip rather than chug. In Britain, where a fifth of 16- to 24-year-olds do not drink at all, the number of pubs is falling by about 1,000 a year, and nightclubs are faring even worse. In the past young people went out for a drink and perhaps had something to eat at the same time, says Kate Nicholls, head of the Association of Licensed Multiple Retailers, a trade group. Now it is the other way round.

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A cosa servono i giovani?

Di seguito un bellissimo video di Stefano Laffi sui giovani oggi da TEDx MIlano.

Il suo discorso è un potente grido di allarme per tutti coloro che hanno un ruolo educativo nella vita delle giovani generazioni. E vorrebbe che effettivamente riflettessimo in modo efficace sull’impatto che la nostra società e il nostro approccio hanno sul futuro dei giovani.

[…] Noi in realtà i bambini e i ragazzi non li vediamo.. li guardiamo non per quello che sono, che fanno, ma per quello che ancora non sono, non fanno, non hanno , cioè sostanzialmente misuriamo la loro distanza fra nostra aspettativa, il nostro standard, la nostra misura e quello che sono ma che non ci basta e la loro vita va avanti fino a 16/20 anni..
quando incontro i ragazzi che incontro e con cui faccio ricerca e loro mi dicono: “Ma tutti questi test, queste verifiche, queste prove, questi casting [a parte in Italia..] in vista di cosa? Qual’era il premio, qual’era il traguardo di questa rincorsa?” E poi ti dicono: “ma io in realtà non so cosa mi piace.. ho sempre fatto quello che dovevo e poi non mi sento abbastanza.. forse non sono adeguato, forse non ce la farò, forse non riuscirò, non lo so, non so cosa scegliere, ho paura del futuro”.

Ma come è possibile? Nell’età della potenza, dell’eros, del desiderio avere paura della realtà e del futuro?

Ma come abbiam potuto portare una generazione a quel punto? Anziché convocarla nella realtà li abbiamo tenuti in esilio, in cattività, anziché dare i compiti di realtà e di responsabilità. Questo dico.. è una follia che non possiamo più permetterci. […]

[I giovani] devono essere formati come pionieri. Pionieri completamente diversi vuol dire che devi spostare la frontiera della conoscenza, vuol dire che devi studiare e che devi anche imparare a disimparare, come diceva Gregory Bateson, quindi sostanzialmente a ricostruire completamente le regole. Vuol dire che devi essere formato con domande, non allenato  rispondere come succede a scuola, e queste domande. […]

Stefano Laffi, tra le tante cose, è autore di due bellissimi libri sui giovani: Il furto: mercificazione dell’età giovanile (2000) e La congiura contro i giovani (2014).

Difendere l’Italia

Di seguito un estratto dal capitolo “Dobbiamo accettare la distruzione dell’Europa?” del libro Difendere l’Italia (2013) di Ida Magli.

ida magli difendere l'italia bur

[…] Il 5 luglio 2013 è dunque una data che gli italiani non dovranno dimenticare mai. La data dell’infamia di questi governanti che dovrebbero essere condannati molto più gravemente di quelli che hanno trascinato i popoli alla rovina con le guerre. Più gravemente perché questi l’hanno fatto per il tradimento, per uccidere i propri popoli.
I governanti, però, di tutto questo non parlano. Non parlano né di sé stesi, da quando si sono volontariamente ridotti alla sola funzione di dire di sì alle decisioni dei banchieri, né dei banchieri e del loro tirannico modo di governare i popoli. Un silenzio che dura da troppo tempo anche perché, da quando la crisi ha raggiunto il suo culmine con il terribile anno 2011, il tempo, come abbiamo già notato, sembra diventato inafferrabile, impossibile da padroneggiare. Tutti si aspettano che siano gli esperti, i politici a traghettare i sudditi, ridotti alla veste di “ombre”, lungo la strada che porta alla luce. I politici, però, sanno bene che questa strada non esiste perché  l’unica possibile comporterebbe rimettere in questione l’unificazione europea, il dominio dei banchieri, cosa che nessuno osa neanche porre di fronte a sé. Ripetono perciò che “si vede la luce in fondo al tunnel”, ma è il tunnel che non è per nulla un tunnel, un corridoio da percorrere per raggiungere una meta: è invece la situazione, è la realtà.

Quel possente dolore di cui parlava Georg Trakl non aiuta ad accendere la fiamma dello spirito nei nostri giovani, non corrisponde a ciò che stanno vivendo perché non sanno neanche che quello che soffrono è un possente dolore. Sono al di là della percezione del dolore. Si aggirano “soli”, chiusi ad ogni mondo che non sia quello riflesso nell’a tu per tu con il loro computerino. Una solitudine nuova, tragicamente, vuota, quella che sperimentano i nostri giovani e che parla anch’essa della fine dell’Europa. Non hanno nulla da dire a nessuno. Questo silenzio, però, questo vuoto, dice una cosa terribile: che non abbiamo consegnato loro, nella rovina in cui siamo sprofondati, neanche quell’ardente fiamma dello spirito di cui parla Trakl e che fino ad oggi gli uomini che si sono succeduti in Europa hanno sempre tenuto accesa e consegnato, attraverso i secoli, ai loro discendenti. Lasceremo che i banchieri spengano anche questa fiamma?

Luciano Barra Caracciolo MERCATI E COSTITUZIONE: “INTERVISTA” A CALAMANDREI. MA WEIDMAN E OETTINGER STRICTO IURE HANNO RAGIONE

Alberto Bagnai Öttinger