Il volo su Vienna e Palomar

Oggi si celebra il centenario del “Volo su Vienna” di Gabriele D’Annunzio.

Uno dei migliori italiani di sempre, il Vate ha saputo utilizzare con maestria tutti i possibili “dispositivi” per lasciare il segno su questa terra e per rinviare il più possibile quel “momento in cui sarà il tempo a logorarsi e ad estinguersi in un cielo vuoto, quando l’ultimo supporto della memoria del vivere si sarà degradato in una vampa di calore, o avrà cristallizzato i suoi atomi nel gelo d’un ordine immobile” (Italo Calvino, Palomar, 1983).

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Senza il seme, le idee e i pensieri, le parole e le azione del Vate molti di noi probabilmente non ci sarebbero stati.

Di seguito, l’estratto sui “dispositivi” di Calvino dal libro “Palomar”.

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Certo si può anche puntare sui dispositivi che assicurano la sopravvivenza almeno d’una parte di sé nella posterità, classificabili soprattutto in due categorie: il dispositivo biologico, che permette di tramandare alla discendenza quella parte di sé stessi che si chiama patrimonio genetico, e il dispositivo storico, che permette di tramandare nella memoria e nel linguaggio di chi continua a vivere quel tanto o quel poco d’esperienza che anche l’uomo più sprovveduto raccoglie e accumula. Questi dispositivi possono anche essere visti come uno solo presupponendo il susseguirsi delle generazioni come le fasi della vita d’una singola persona che continua per secoli e millenni; ma così non si fa che rinviare il problema, dalla propria morte individuale all’estinzione del genere umano, per tardi che questa possa succedere.

(9 agosto 1918 – 6 agosto 1945)

Della perpetua volontà popolare

Di seguito pubblico la parte iniziale della Carta del Carnaro intitolata “Della perpetua volontà popolare” di Gabriele D’Annunzio e Alceste De Ambris e promulgata l’8 settembre 1920 a Fiume (corsivo mio).

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Della perpetua volontà popolare
Fiume, libero comune italico da secoli, pel voto unanime dei cittadini e per la voce
legittima del Consiglio nazionale, dichiarò liberamente la sua dedizione piena e intiera
alla madre patria, il 30 ottobre 1918.
Il suo diritto è triplice, come l’armatura impenetrabile del mito romano.
Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie, è l’estrema rocca della cultura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco. Per lei, di secolo in secolo, di vicenda in vicenda, di lotta in lotta, di passione in passione, si serbò italiano il Carnaro di Dante. Da lei s’irraggiarono e s’irraggiano gli spiriti dell’italianità per le coste e per le isole, da Volosca a Laurana, da Moschiena ad Albona, da Veglia a Lussino, da Cherso ad Arbe.
E questo è il suo diritto storico.
Fiume, come già l’originaria Tarsàtica posta contro la testata australe del Vallo
liburnico, sorge e si stende di qua dalle Giulie. È pienamente compresa entro quel
cerchio che la tradizione la storia e la scienza confermano confine sacro d’Italia.
E questo è il suo diritto terrestre.
Fiume con tenacissimo volere, eroica nel superare patimenti insidie violenze
d’ogni sorta, rivendica da due anni la libertà di scegliersi il suo destino e il suo compito,
in forza di quel giusto principio dichiarato ai popoli da taluno dei suoi stessi avversari
ingiusti.
E questo è il suo diritto umano.
Le contrastano il triplice diritto l’iniquità la cupidigia e la prepotenza straniere; a
cui non si oppone la trista Italia, che lascia disconoscere e annientare la sua propria
vittoria.
Per ciò i1 popolo della libera città di Fiume, sempre fiso al suo fato latino e
sempre inteso al compimento del suo voto legittimo, delibera di rinnovellare i suoi
ordinamenti secondo lo spirito della sua vita nuova, non limitandoli al territorio che
sotto il titolo di «Corpus separatum» era assegnato alla Corona ungarica, ma offrendoli
alla fraterna elezione di quelle comunità adriatiche le quali desiderassero di rompere gli
indugi, di scuotere l’opprimente tristezza e d’insorgere e di risorgere nel nome della
nuova Italia.
Così, nel nome della nuova Italia, il popolo di Fiume costituito in giustizia e in
libertà fa giuramento di combattere con tutte le sue forze, fino all’estremo, per
mantenere contro chiunque la contiguità della sua terra alla madre patria, assertore e
difensore perpetuo dei termini alpini segnati da Dio e da Roma.

Il discorso di D’Annunzio a Quarto

Di seguito pubblico la parte finale dell’orazione di Gabriele D’Annunzio tenuta il 5 maggio 2015 a Quarto, in occasione delle celebrazioni per l’inaugurazione del monumento dei Mille.

d'annunzio a quarto

(..) Italiani d’ogni generazione e d’ogni confessione, nati dell’unica madre, gente nostra, sangue nostro, fratelli; (..)
O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere.
Beati quelli che hanno venti anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa.
Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza, ma la custodirono nella disciplina del guerriero.
Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per essere vergini a questo primo e ultimo amore.
Beati quelli che, avendo nel petto un odio radicato, se lo strapperanno con le lor proprie mani; e poi offriranno la loro offerta.
Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l’evento, accetteranno in silenzio l’alta necessità e non più vorranno essere gli ultimi ma i primi.
Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore.
Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia

qui il discorso intero

V’è dunque nella nostra terra un fondo inesauribile di forza creatrice

Gabriele D’Annunzio – Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1° marzo 1938

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“V’è dunque nella nostra terra un fondo inesauribile di forza creatrice, un nucleo d’energie latente ove si ristora perpetuamente la vita che si consuma in noi, ove si formano in segreto i corpi gagliardi, i cuori vasti, gli spiriti luminosi che domani c’irradieranno all’improvviso.
È vero dunque che la nostra terra è ancóra tanto ricca da poter nutrire il germe della più alta speranza.” Firenze 1900