Un compito morale [La famiglia]

Di seguito propongo la lettura di Un compito morale [La famiglia] del 1918 di Antonio Gramsci, tratto dal libro Odio gli indifferenti.

 odio gli indifferenti, libro, Antonio Gramsci

I socialisti sono presentati ancora e spesso come i nemici della famiglia. È questo uno dei luoghi comuni, uno dei pregiudizi antisocialisti più radicati e diffusi, specialmente nei ceti popolari che meno conoscono le nostre dottrine, i nostri ideali, perché la fede nel riscatto degli uomini dalla schiavitù economica non ha suscitato quella simpatia che è necessaria per comprendere, anche senza studio, un movimento sociale, e la mancanza appunto di ogni coltura fa sì che essi non conoscano neppure obbiettivamente ciò che i socialisti si propongono, e in quali forme vogliono che i loro propositi siano attuati.
La famiglia è, essenzialmente, un organismo morale. È il primo nucleo sociale che supera l’individuo, che impone all’individuo obblighi e responsabilità. La sua struttura ha cambiato nella storia. Nel mondo antico essa comprendeva, oltre che i genitori e la prole, anche gli schiavi, i clienti, gli amici. Essendo anche organo di difesa e di tutela sociale, nella famiglia antica si raggruppavano intorno a un uomo potente e ricco non solo la sua donna e i suoi figli, ma anche tutti quelli che da soli sarebbero stati incapaci di tutelare e proteggere i loro interessi giuridici, morali ed economici ed erano costretti a subordinarli a un potente, contraccambiandone con servizi di varia importanza i benefici di sicurezza e di libertà personale che ricevevano.
Mano a mano che nella storia andò rafforzandosi l’idea e l’istituto dello Stato, gli individui vennero acquistando la possibilità e il diritto alla sicurezza e alla libertà, all’infuori dell’istituto familiare. La famiglia si ridusse al suo nucleo naturale, i genitori e la prole, ma, oltre che organo di vita morale, continua a essere organo di difesa e di tutela biologica e sociale. In questa doppia funzione è riportata la manchevolezza della famiglia com’è attualmente costituita.
Per noi socialisti – per quelli almeno, e sono i più, che non hanno ubbie statolatriche e non pensano affatto che in regime socialista l’educazione dei figli debba essere affidata a istituti di Stato, impersonali, operanti meccanicamente e burocraticamente – la famiglia deve essere reintegrata nella sua sola funzione morale, di preparazione umana, di educazione civile. La famiglia attuale non può adempiere questo compito. La preoccupazione maggiore dei genitori non è ora quella di educare, di arricchire la prole del tesoro di esperienze umane che il passato ci ha lasciato e che il presente continua ad accumulare. È invece quella di tutelare lo sviluppo fisiologico della prole, di assicurarle i mezzi di sussistenza, di assicurarle questi mezzi anche per l’avvenire. La proprietà privata è sorta appunto per ciò. L’individuo, diventando proprietario, ha risolto il problema angoscioso della sicurezza di vita per i suoi figli, per la sua donna. Ma la soluzione che la proprietà privata ha dato a questo problema è una soluzione antiumana; la sicurezza per la prole diventa privilegio di pochi, e noi socialisti vogliamo che ciò non sia, che tutti i nati di madre siano tutelati nel loro sviluppo fisiologico e morale, che tutti i nati di madre si trovino a essere uguali di fronte ai pericoli, alle insidie dell’ambiente naturale, e trovino tutti in modo uguale i mezzi necessari per educare le propria intelligenza, per dare a tutta la collettività i frutti massimi del sapere, della ricerca scientifica, della fantasia che crea bellezza nella poesia, nella scultura, in tutte le arti. L’abolizione della proprietà privata e la sua conversione in proprietà collettiva, pertanto, potrà solo far ciò che la famiglia sia ciò che è destinata ad essere: organo di vita morale. In regime collettivista la sicurezza e la libertà saranno beneficio di tutti indistintamente: i mezzi necessari per la tutela dalla prole saranno assicurati a tutti. I genitori non saranno più assillati angosciosamente dalla ricerca del pane per i loro piccoli, e serenamente potranno esercitare il loro compito morale di educatori, di trasmettitori della fiaccola della civiltà da una generazione all’altra, dal passato all’avvenire.

Nemici della famiglia i socialisti, i proletari?

O come si spiegherebbe la tenacia del sacrifizio del proletario che lotta per il riscatto della sua classe, se si togliesse l’amore, l’angosciosa preoccupazione per l’avvenire dei figli? Il borghese si affatica e si logora talvolta per l’arricchimento individuale, per costruirsi una proprietà da trasmettere ai suoi nati. Ma la sua fatica, il logorarsi della sua fibra non è illuminato dall’ideale universale; è oscurato dal privilegio che si vuol perpetuare, dall’esclusione dei più che si vuole determinare. Il proletario lotta e si sfibra perché vuole lasciare ai suoi nati delle condizioni migliori collettive di esistenza e di sicurezza: compie i sacrifizi più dolorosi, compie se necessario, anche il sacrifizio della vita, perché vuole creare per i suoi nati un avvenire di pace e di giustizia, nel quale essi trovino indistintamente, senza nessuna esclusione, i mezzi assicurati di sussistenza, di sviluppo intellettuale e morale, e questi mezzi possano trasmettere, accresciuti ai venturi. Chi più ama la famiglia? Chi si preoccupa di più della sua consistenza razionale e morale? E tuttavia noi socialisti continuiamo e continueremo per un pezzo ad essere, presso gli scemi e gli incolti, i suoi nemici più acerrimi, i suoi più subdoli insidiatori.

9 febbraio 1918

La metamorfosi delle famiglie italiane: le nuove famiglie, il mosaico generazionale e i millennials

Di seguito pubblico alcuni estratti del capitolo 2 “La metamorfosi delle famiglie italiane” del Rapporto Coop 2016 Consumi e ditribuzione – Assetti, dinamiche, previsioni uscito nel dicembre 2016 ed ancora molto interessante.

La popolazione italiana si restringeRisultati immagini per rapporto coop 2016
Se si potesse rappresentare l’Italia di domani con una immagine, andrebbe illustrata come un ospedale o una grande casa di riposo. Il nostro Paese sta lentamente morendo: da più di venti anni (1994) le nascite non sono sufficienti per compensare il numero dei decessi. E la crescita della popolazione, registrata nelle statistiche, ha beneficiato negli ultimi anni soltanto del contributo dei flussi migratori (sono poco più di 5 milioni gli stranieri che vivono nel Bel Paese, con una incidenza che ha raggiunto l’8% della popolazione). A dispetto di tale contributo, ell’ultimo anno la popolazione residente in Italia (pari a 60 milioni 656 mila individui), è risultata per la prima volta in assoluto, in calo di ben 140 mila unità.
Tale flessione ha di molto anticipato un fenomeno che era già ampiamente nelle previsioni, seppure con una accelerazione attesa solo a partire dal 2020. Secondo le ultime proiezioni delle Nazioni Unite, l’arretramento della popolazione nel nostro Paese avrà dimensioni tra le più ampie di tutta Europa: entro il 2050 gli individui residenti in Italia saranno 56 milioni ed entro il 2100 meno di 50 milioni, con un saldo negativo prossimo al 20% rispetto ad oggi (nello scenario più pessimistico si scende addirittura poco sopra quota 30 milioni di persone).
In questo scenario macro stupiscono alcuni dati territoriali. A suggerire che trend demografici e condizioni economiche sono strettamente correlati, nel  2014 nelle Regioni del Mezzogiorno, da sempre considerate le più prolifiche in termini demografici, si sono registrate appena 174 mila nascite, il minimo storico dall’Unità d’Italia. Anche qui una vera e propria emergenza demografica.
Saremo in ogni caso di meno e soprattutto saremo sempre più anziani: entro il 2050 quasi un individuo su cinque avrà oltre ottant’anni ed uno su tre più di 65 anni. A ben guardare le statistiche disponibili, l’Italia di domani sarà più simile alla Liguria di oggi, la Regione più anziana di tutto lo Stivale (ove quasi il 30% della popolazione è già nel 2016 fatta da ultrasessantacinquenni). Saremo, inoltre, il Paese degli ultracentenari. Se già oggi l’Italia si colloca in quinta posizione per numero di persone con oltre 100 anni di vita (sono complessivamente 25 mila, alle spalle di Stati Uniti, Giappone, Cina e India), i “grandi longevi” aumenteranno entro il 2050 di quasi 10 volte (220 mila) ed entro il 2100 di quasi 30 volte (710 mila), con una incidenza sul totale della popolazione (1,5%) che sarà la più elevata tra le economie avanzate (0,2% a livello globale, meno dell’1% nel Vecchio Continente). Sotto questo punto di vista, l’Italia andrà somigliando sempre più alla Sardegna: in quella regione si contano, infatti, 22 centenari ogni 100 mila abitanti, la più alta concentrazione al mondo, ancor più della celebre isola di Okinawa in Giappone.
Alle dinamiche demografiche si è sommata negli ultimi anni una rinnovata tendenza degli italiani – soprattutto i più giovani – ad abbandonare l’Italia in cerca di fortuna e di nuove opportunità di lavoro. Evento non certo nuovo nella storia del nostro Paese, ma che nei tempi recenti ha sperimentato un significativo incremento: secondo i dati dell’Anagrafe della popolazione italiana residente all’estero (Aire), nel 2015 sono stati 107 mila gli emigranti italiani (+6 mila unità in confronto all’anno precedente, un record assoluto), di cui la metà di età compresa tra 20 e 40 anni. Nell’ultimo decennio, tra il 2006 ed il 2015, sono così saliti a più di 800 mila gli italiani che hanno lasciato il Paese, mentre ammontano a 4,8 milioni le persone di nazionalità italiana ufficialmente residenti all’estero. Due “expats” italiani su tre si sono diretti verso gli altri Paesi Europei (Germania e Gran Bretagna, la meta preferita tra i più giovani, oltre alla Svizzera ed alla Francia), ma anche oltre i confini del Vecchio Continente (Brasile, Stati
Uniti, con una forte crescita degli Emirati Arabi Uniti, nuova terra di conquista dei nostri connazionali). Il declino demografico in atto non è quindi solo una questione di calo della popolazione, ma ancor più di squilibrio tra generazioni, con le implicazioni sociali ed economiche che ne derivano. Infatti, il fenomeno del cosidetto “degiovanimento” (riduzione dei giovani) è ancora più marcato dell’invecchiamento (aumento degli anziani): in altri termini, l’Italia perde ogni anno più giovani di quanti anziani guadagna, rinunciando di conseguenza a
quella porzione di popolazione potenzialmente più dinamica e produttiva.

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Il conflitto morbido

Il clima politico, le condizioni economiche e sociali mutate e la sempre maggiore difficoltà ad emanciparsi e a realizzarsi definitivamente hanno portato gran parte dei giovani di oggi ad attenuare e ad ammorbidire il conflitto generazionale tra genitori e figli.

#STEFANOBOSSO PH. BUKHARA, UZBEKISTAN, 2017#STEFANOBOSSO PH. BUKHARA, UZBEKISTAN, 2017


La famiglia come ultimo avamposto di sicurezza e tranquillità in una società in continuo cambiamento e disgregazione. Una santa alleanza tra genitori e figli per mantenere quanto più possibile la propria posizione nella trincea della vita ed avere un’ancora di salvataggio nel momento del bisogno.

Molti gli spunti di riflessione dalla lettura del paragrafo Conflitto morbido dell’ottimo libro La fatica di diventare grandi (2014) di Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet, di cui riporto alcuni estratti.

Risultati immagini per la fatica di diventare grandiAnche i conflitti generazionali si smorzano notevolmente. Inizia una nuova fase dei
rapporti tra genitori e figli. Da un lato, perché quelli che da giovani erano stati i protagonisti della lotta contro il sistema e la famiglia sono oggi madri e padri, inseriti, nella maggior parte dei casi in quel sistema che contestavano. Dall’altro, perché è mutato il clima politico e soprattutto sono mutate le condizioni economiche.

Le generazioni degli anni Sessanta e settanta avevano come sfondo della protesta una situazione economica favorevole, forte. L’offerta di lavoro superava abbondantemente la domanda. Quando si parlava di lavoro si pensava naturalmente a tempo indeterminato. Il momento di frattura era pertanto tra scuola e lavoro, nel cui intermezzo si inseriva il servizio militare. Un momento che, rispetto alla situazione attuale, era anticipato per gran parte dei giovani. Infatti, in quegli ani per molti figli della classe operaia il raggiungimento del diploma era già un traguardo e rappresentava un passo in avanti rispetto alla generazione dei genitori, che aveva avuto scarse opportunità di studio, vuoi per motivi economici vuoi per la guerra.

Oggi il momento di rottura, che separa l’età dello studio da quella del lavoro, non solo è spostato in avanti in quanto sono molti di più i giovani che frequentano  l’università, ma la sua valenza si è pure attenuata, perché l’inserimento lavorativo è sempre più difficile e, anche quando si trova un impiego, è spesso precario e no rappresenta un vero progetto alternativo. Anzi, per certi versi, prolunga quella condizione di aleatorietà e di dipendenza dalla famiglia, tipica dello studente, protraendola nel tempo e rimandando il distacco dai genitori.

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