Lavorare manca

Lavorare manca (2014) è un libro di Diego Marani che intreccia brillantemente il racconto autobiografico a considerazioni personali sul mondo del lavoro passato e presente.

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Si parte dalle prime perplessità “perché il lavoro non è mai come ce lo spiegano a scuola, come lo immaginiamo da fuori, non è mai la conquista della libertà ma l’inizio di un’altra cosa, che più propriamente non si chiama neppure lavoro bensì fatica e che fa tutt’uno con la vita. (..)” E poi la maestra che “ci spiegava che tutti devono lavorare, che ogni mestiere anche il più umile, è nobile perché produce qualcosa di buono per tutti, che anche noi avremmo trovato il nostro e che la cosa più giusta da fare alla nostra età di bambini era imparare e studiare le cose che ci piacevano di più, così le avremmo fatte diventare il nostro mestiere e lavorare non ci sarebbe pesato per nulla, anzi sarebbe stata la nostra passione. (..)” E poi via in un fiume di ricordi e amare analisi del presente, passando dal primo lavoro sotto il sole a raccogliere le fragole per mettere da parte dei soldi per una canoa e grazie al quale il protagonista impara cosa vuol dire “avere un padrone e nient’altro che le proprie braccia. Contava poco il cervello, la cultura, la buona educazione, la bellezza, il fine pensiero. Il lavoro era tutto lì: per cavarsela con poco bisognava avere qualcosa di interessante da vendere. Sennò restavano solo le braccia. E guadagnarsi da vivere con quelle era una gran fatica”. Il lavoro dei nonni. L’esperienza inglese a Londra dopo la maturità a fare lo sguattero, il cameriere e il portiere. Gli studi. E finalmente il lavoro da funzionario a Bruxelles come interprete alle Cee. Poi tanto altro ancora, fino al ripresentarsi del problema lavoro, ma stavolta per il figlio. Un libro interessante, piacevole e semplice da leggere dove è facile identificarsi nelle avventure e nelle considerazioni dell’autore.

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Gli effetti “cicatrice” della disoccupazione giovanile

estratti e traduzione dell’articolo Youth unemployment produces multiple scarring effects di Ronald McQuaid del 18 febbraio 2017.

È evidente che la disoccupazione giovanile ha molte conseguenze negative in termini di benessere materiale e mentale. In questo articolo Ronald McQuaid riassume i multipli effetti “cicatrice” della disoccupazione giovanile. L’attuale alto livello di disoccupazione giovanile avrà ripercussioni nella società per decenni, rendendo incredibilmente importanti le risposte politiche del presente.

#stefanobosso, Myanmar kids 2013

#stefanobosso ph, Myanmar, 2013


Secondo numerose ricerche (vedi ad esempio i lavori di Bell & Blanchflower e Strandh e altri), essere disoccupati da giovani conduce ad una maggiore probabilità di presenza di “cicatrici” nel prosieguo della vita in termini di: inferiori retribuzioni successive, maggiore disoccupazione e riduzione delle opportunità nella vita. Ci sono anche prove di maggiori problemi di salute mentale al raggiungimento dei ’40 o ’50 anni. Quindi l’impatto degli alti livelli di disoccupazione giovanile si avvertirà nella società per decenni.

Ci sono molti problemi nell’analizzare nel lungo termine le cause e gli effetti di tali cicatrici e le ragioni per cui esse sembrano interconnesse. Per esempio, il benessere e la salute mentale possono sì influire sui redditi successivi e sulle possibilità di ottenere e mantenere un lavoro, ma sono essi stessi influenzati dalla disoccupazione. Alcuni motivi diffusi e sovrapposti di queste cicatrici comprendono: (1) le risposte del datore di lavoro, (2) le capacità personali, (3) le aspettative, (4) la ricerca del lavoro e (5) l’influenza dei fattori esterni nell’economia e nella società.

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La prossima generazione di disoccupati

oca e sfigatto

estratto da Lavorare gratis, lavorare tutti (2017) di Domenico De Masi 

(..) Oggi molti disoccupati che vivono nei Paesi ricchi escludono – si illudono di escludere – dal loro orizzonte temporale il pericolo di finire alla mensa della Caritas. In parte questa fiducia è dovuta al fatto che un americano o un europeo, per quanto povere, comunque dispone di un prodotto interno lordo pro capite di gran lunga superiore a quello del poverissimo abitante del Terzo mondo (basti pensare che il Pil pro capite negli Stai Uniti è di 54.000 dollari, in Italia di 36.000 dollari, nel Burundi di 268 dollari).

Ma questa fiducia è dovuta anche al fatto che questa prima generazione di disoccupati in massa è composta da figli di genitori occupati o pensionati che gli assicurano la sopravvivenza. Ma la prossima generazione di disoccupati sarà composta da figli disoccupati di genitori disoccupati e a quel punto, caduto il welfare familiare, o si mette mano a una riorganizzazione generale della società, o la convivenza umana è destinata davvero a diventare un serraglio hobbesiano in cui ogni uomo è lupo per l’altro uomo e non esiteranno più Paesi in cui si potrà scappare sperando di trovarli vivibili e di trovarvi lavoro.

Cert’è che il tasso di disoccupazione nell’Unione europea è passato dal 7% del 2006 l 12% del 2016. In Italia, nello stesso decennio, è salito dall’8% al 13,5%. Quanto alla disoccupazione giovanile, che in Europa è al 22%, in Italia è impennata dal 16% del 2006 al 38% del 2016. (..)

Il Welfare dei Millennials

welfare millennials obiettivo italia

Ieri si è tenuto un convegno organizzato da Obiettivo Italia sul tema del Welfare dei Millennials presso il centro Congressi Roma eventi all’Audiotorium Loyola. Molti i nomi illustri tra cui il presidente dell’Inps Tito Boeri e l’ex ministra Elsa Fornero in collegamento telematico.

Qui un ottimo sunto dei vari interventi che hanno animato il dibattito. Come al solito tante buone idee e propositi e tanti i temi trattati: fiscalizzazione degli oneri sociali, migliori politiche attive del lavoro (vedi centri per l’impiego e di orientamento), formazione continua, incentivi fiscali per le imprese che assumono giovani, crisi economica e demografica, mancanza di continuità contributiva, reddito di cittadinanza, pensioni minime, minore tassazione, etc. Aspettiamo con rassegnato ottimismo di vedere cosa accadrà in futuro.

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C’era una volta la “Meglio Gioventù”

estratti dall’articolo C’era una volta la “Meglio Gioventù” di Paolo Naticchioni, Michele Raitano e Claudia Vittori del 16 luglio 2014

Il problema della disoccupazione giovanile sta caratterizzando il dibattito di politica economica in Europa e in particolar modo in Italia ed è divenuto oramai un tema di acceso interesse per l’opinione pubblica e il mondo accademico. Studiosi e giornalisti sono concordi nell’enfatizzare le condizioni sfavorevoli delle giovani generazioni nel mercato del lavoro, sia rispetto agli adulti e agli anziani, sia rispetto ai giovani delle precedenti generazioni, tanto da riferirsi sovente ai più giovani con termini quali generazione sacrificata, generazione zero, generazione 1.000 euro. Il Financial Times ha recentemente parlato di “lost generation” per sottolineare la forte caduta dei salari dei più giovani rispetto alle generazioni precedenti.

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La riduzione potrebbe, dunque, dipendere soprattutto dalle peculiarità della struttura produttiva italiana. La sostanziale stabilità della domanda di lavoro qualificato potrebbe, infatti, derivare da una struttura produttiva che fatica a introdurre innovazioni, anche perché le imprese perseguono strategie di contenimento dei costi, anziché di miglioramento della qualità e, perciò, non riesce a mettere a frutto le potenzialità di giovani generazioni mediamente più istruite. D’altro canto, tali strategie potrebbero essere state rese più convenienti dal processo di deregolamentazione delle forme contrattuali e dalla minore incisività dell’azione dei sindacati che, indeboliti ed impegnati a difendere i livelli salariali minimi, potrebbero aver dedicato minore attenzione alle mansioni e alle prospettive di carriera offerte ai più istruiti.

Se questa analisi è corretta, sarebbe un grave errore pensare che per migliorare le prospettive delle nuove generazioni sul mercato del lavoro sia sufficiente intervenire soltanto dal lato dell’offerta senza preoccuparsi di incidere, primariamente, sui vincoli che emergono dal lato della domanda.


20.11.2017 Aiutiamoli a casa loro… i nostri cervelli in fuga