“Non penso a tutta la miseria ma alla bellezza che rimane ancora”
A. Frank, Diario
Estratti da Sole e acciaio di Yukio Mishima.
[…] Un giorno decisi di incominciare a coltivare alacremente il mio orto. Usai sole e acciaio. I raggi implacabili del soli, uniti all’acciaio dell’aratro e della zappa, furono due elementi principali della mia coltivazione. Così, mentre gli alberi lentamente fruttificavano, il pensiero del corpo giunse ad occupare gran parte delle mie meditazioni.
Naturalmente un fatto simile non è realizzabile nell’arco di un giorno; e neppure ha inizio senza qualche motivo profondo. […]
Quel giorno iniziò una stretta relazione che sarebbe durata dieci anni, tra la massa d’acciaio e me.
La natura di questo acciaio è veramente strana: ogni suo aumento di peso accresceva gradatamente, proprio come su una bilancia, anche la consistenza dei miei muscoli sull’altro piatto, Era come se l’acciaio avesse il dovere di conservare un equilibrio infinitesimale con il peso dei miei muscoli. E, gradualmente, tutte le proprietà dei miei muscoli rafforzarono la loro rassomiglianza con l’acciaio. Questo lento sviluppo somigliava straordinariamente a quel processo di “educazione” mediante iol quale si ricostruisce intellettualmente il cervello fornendo all’encefalo prodotti intellettuali sempre più difficili. E poiché continuavo a sognare una superficiale, esemplare forma ideale e classica del corpo quale obiettivo finale dell’educazione, l’intero processo somigliava molto al modello dell’educazione classica.
Ma quale dei due somigliava veramente all’altro? Non cercavo forse con le parole d’imitare la forma classica del corpo? La bellezza, per me, tornava sempre sui propri passi. Per me era importante solo un’immagine che esisteva un tempo, o che avrebbe dovuto esistere. La massa d’acciaio, con le proprie operazioni che presentavano variazioni infinite, ricreava un equilibrio classico, adempiva alla funzione di sospingere nuovamente il corpo verso la forma che avrebbe dovuto possedere. I fasci di muscoli, ormai quasi superflui nella vita contemporanea, sono ancora elementi vitali nella struttura del corpo maschile, ma è evidente la loro inutilità nella vita quotidiana: i muscoli non sono necessari, proprio come non è necessaria un’educazione classica per la grande maggioranza degli uomini pratici. I muscoli erano diventati progressivamente simili alla lingua greca antica. Per resuscitare quella lingua morta era necessaria un’educazione impartita dall’acciaio, per ribaltare il silenzio della morte nell’eloquenza della vita era essenziale l’aiuto dell’acciaio.
L’acciaio mi mostrò quale rispondenza esistesse realmente tra lo spirito e il corpo: emozioni deboli corrispondevano a muscoli flaccidi, il sentimentalismo a uno stomaco rilassato, la sensibilità a una pelle bianca e delicata: quindi muscoli sviluppati dovevano corrispondere a un ardente spirito combattivo, uno stomaco teso a un giudizio freddo e cerebrale, una pelle elastica a un carattere risoluto. Voglio precisare che non intendo sostenere che questo valga per la totalità degli uomini. Anche la mia limitata esperienza era sufficiente a farmi concludere che c’erano casi in cui muscoli sviluppati nascondevano un animo debole Però, come ho già accennato, per me le parole precedevano la carne, e quindi le immagini di tute le virtù morali evocate da espressione come ardente, elastico, risoluto, dovevano necessariamente manifestarsi come segni fisici: per raggiungere questo fine era dunque sufficiente che donassi a me stesso, come in un processo educativo, queste caratteristiche esteriori.
Inoltre, al di là di quella forma classica, in me era latente un progetto romantico. L’impulso romantico, che fin da ragazzo era come una corrente sotterranea nella mia mente, assumeva significato solo in quanto distruzione della perfezione classica e si annunciava in me come un preludio in cui fosse presente la totalità dei temi dell’intera sinfonia: prima ancora di avere ottenuto un solo risultato concepivo già una composizione predeterminata. Pur nutrendo un profondo impulso romantico verso la morte, esigevo quale suo strumento un corpo rigorosamente classico; data la mia strana concezione del destino, gli impulsi romantici che mi spingevano alla morte non ebbero modo di realizzarsi per una ragione molto semplice: credevo di non possedere qualità fisiche necessarie. Per una morte romantica ed eroica erano indispensabili muscoli possenti e scultorei; pensavo che se carni flaccide si fossero trovate al cospetto della morte, non si sarebbe manifestata che una ridicola inadeguatezza, A diciotto anni, benché desiderassi una fine violenta, sentivo di non esserne degno. Infatti non possedevo muscoli che si addicessero a una morte drammatica. E feriva profondamente il mio orgoglio romantico l’essere sopravvissuto fino al termine della guerra grazie a quella inadeguatezza.
Comunque quell’intrico di idee contorte era semplicemente il groviglio del preludio di un essere che ancora non aveva realizzato nulla. Sarebbe bastato che un giorno riuscissi a realizzare qualcosa, o a distruggere qualcosa. E fu proprio l’acciaio a darmi la chiave di tutto. […]