È da poco uscito il sesto quaderno del Rapporto Giovani (a cura di Sara Alfieri ed Emiliano Sironi) dal titolo “Una generazione in panchina, da Neet a risorsa per il paese”. Il volume raccoglie le versioni riviste ed estese dei contributi presentati al ‘Neeting’, il primo convegno nazionale sui Neet tenutosi all’Università Cattolica il 3 e 4 novembre 2016.
Giovani e meno giovani che non studiano e non lavorano ci sono sempre stati, ma è partire dal 1999 che grazie al report Bridging the gap: New opportunies for 16-18 year olds not in education, empoloyment or training iniziano le narrazioni di questo fenomeno sui media e nelle ricerche, sopratutto inglesi.
Leggendo il libro di Rapporto Giovani mi è tornato in mente un articolo che avevo ritagliato della Repubblica nel lontano aprile 2007 dal titolo “Neets”, la generazione degli autoesclusi di Cinzia Sasso, che ripropongo. Senza dover sapere l’inglese, già solo 10 anni fa la classe politica italiana avrebbe potuto avere il sentore di quello che sarebbe accaduto anche in Italia e che le misure “una tantum e via” servono veramente a poco.
Londra – A scoprirli e battezzarli, sperduti per le strade di Londra, mescolati agli altri adolescenti nelle vie delle città dell’Inghilterra, vestiti come tutti con i pantaloni bassi, le felpe e i berrettini da baseball e incollati agli iPod, non è stata questa volta una ricerca sociologica: a individuare i “Neets” come l’ultima tribù da tenere sotto osservazione è stato uno studio della London School of Economics intitolato “The cost of esclusion”. Sono risvolti economici di quella che viene definita “una generazione tradita” il miliardo di sterline l’anno che costano i loro comportamenti, i 6-7 miliardi di euro che la loro marginalità costa alla collettività, le ragioni che hanno portato stavolta ad accendere un faro su di loro. Sui ragazzi che non vanno a scuola, che non hanno un lavoro, che quel lavoro nemmeno vogliono imparare o cercare. “Neets” significa “not in education, employment or training”. Significa insomma i marginali, gli esclusi, quelli senza arte né parte, quelli che le scelte di oggi porteranno ad essere anche gli emarginanti di domani. Significa, in altre parole, ragazzi senza futuro.
Sono una tribù numerosa, fatta di almeno un milione di giovani. Ragazzi o poco più, la loro età è compresa tra i 16 e i 24 anni, perché oggi l’adolescenza si trascina e fino a quell’età. Sarebbe ancora possibile essere studenti, oppure cominciare a fare pratica in qualche mestiere, trovare insomma una propria strada. Ma i “Neets”, una loro strada non la vogliono e non la cercano. Sono disinteressati a tutto, se non proprio cinici comunque indifferenti. Abbandonano gli studi e poi non fanno niente. Nel momento in cui si registra in Inghilterra uno dei tassi di disoccupazione più bassi, intorno al 9%, loro lo sono per almeno il doppio. Nullafacenti oggi, destinati ad essere disoccupati domani.
Un fenomeno che esiste anche in altri paesi del mondo: in Giappone, ad esempio; ed anche in Europa. Ma gli esperti britannici proprio per questo si dicono ancora più preoccupati: i “Neets” inglesi sono almeno il doppio di quanti siano i loro compagni tedeschi e francesi. Come se questa malattia di vivere avesse attecchito più qui che altrove. E così il presente incerto si trasforma in una ipoteca sul futuro: lo studio eseguito dalla London School of Economics per l’associazione Prince’s Trust, fondata dal principe Carlo proprio per aiutare i giovani a completare l’istruzione e a trovare una strada nel mondo del lavoro, prevede che le conseguenze saranno anche peggiori. Tagliati fuori dal mondo, alla ricerca di un qualche modo per campare, questi giovani facilmente finiranno nella piccola criminalità. Martina Milburn, capo del progetto voluto dal principe di Galles, dice: “Questo problema ha dei costi sociali ed economici altissimi. E le nostre previsioni sono sicuramente più ottimistiche di quel che sarà la realtà”. L’esclusione sociale costa tra i 6 e i 7 miliardi di euro l’anno, e con quella cifra sarebbe possibile ridurre di un punto le tasse; l’aumento della criminalità minorile significa per lo Stato un esborso di di 1 miliardo di sterline l’anno; e poi gli economisti conteggiano le perdite per l’educazione mancata e la futura assistenza di una classe sociale di disoccupati. Il Governo ha già aiutato 700mila giovani tra i 18 e i 24 anni, ma ha scoperto che è molto difficile tradurre il sostegno momentaneo in qualcosa di definitivo. Forse, a occuparsi dei “Neets” dovranno essere anche i sociologi: fare i conti non basta; per aiutare la generazione tradita bisogna capire perché si è perduta.
Di seguito inoltre pubblico un estratto dell’intervento introduttivo del Rapporto Giovani, Riconvertire i giovani da NEET a motore per la crescita del paese, di Alessandro Rosina, Sara Alfieri ed Emiliano Sironi.
L’acronimo NEET (Not in Education, Employment or Training) è stato coniato nel Regno Unito verso la fine del secolo scorso, ma il suo utilizzo diffuso inizia dal 2010 quando l’Unione Europea adotta il tasso di NEET come indicatore di riferimento sulla condizione delle nuove generazioni.
Rispetto all’usuale tasso di disoccupazione giovanile, nell’indicatore sono compresi tutti i giovani inattivi, non solo i disoccupati in senso stretto.
Uno dei pregi della categoria NEET è l’inclusione non solo di chi cerca attivamente lavoro (tecnicamente ‘disoccupati’, parte della ‘forza lavoro’ assieme agli occupati) ma anche degli ‘inattivi’. In quest’ultimo gruppo rientrano però sia gli ‘scoraggiati’ (ovvero chi non cerca più, ma vorrebbe lavorare) sia coloro che non sono interessati al lavoro (Alfieri -Rosina – Sironi – Marta – Marzana, 2015). Il fatto che nel tasso dei NEET rientri anche quest’ultima sottocategoria — che non solo non fa parte della forza di lavoro in senso stretto, ma nemmeno di quella potenziale — è l’aspetto più criticabile. È però utile tener presente che in chi risponde di non essere attualmente interessato ad un lavoro, rientra anche il lavoro sommerso e le persone, soprattutto donne, impegnate in attività di cura potenzialmente incluse nel mercato del lavoro in presenza di adeguati strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro.
Rispetto alla dimensione del fenomeno, i dati EUROSTAT evidenziano che l’Italia presentava livelli più elevati della media europea prima della recessione (18,8% nel 2007 contro 13,2% Ue-28); il fenomeno è aumentato maggiormente da noi durante la crisi (salito a 26,2% nel 2014 contro 15,4% Ue-28); la nostra discesa risulta più lenta con l’uscita dalla crisi (attorno al 22% nella prima metà del 2016, mentre molti paesi dell’Unione sono già tornati ai livelli precedenti la recessione). Attualmente, in termini relativi, siamo secondi solo alla Grecia, mentre, in termini assoluti, siamo il maggior produttore di NEET in Europa con oltre 2,2 milioni di under 30 che non studiano e non lavorano (ma si sale a 3,3 nella fascia 15-34 anni, dato ISTAT del 2016).
È necessario quindi agire con ancora più efficacia sui flussi e sullo stock. I flussi sono i giovani che escono dal sistema scolastico ed entrano nella condizione di NEET. Lo stock comprende coloro che permangono nella condizione di NEET diventando disoccupati di lunga durata o gli scoraggiati. Come mostrano dati comparativi internazionali (Eurofound, 2016), l’Italia si distingue non solo per l’alto numero di NEET ma anche per l’alta quota di chi lo è da oltre un anno, molti dei quali hanno smesso di cercare.
Tale condizione produce un effetto corrosivo, come evidenziano i dati dell’Osservatorio Giovani (Istituto Toniolo, 2017): al ‘non’ studio e lavoro tendono ad associarsi anche altri ‘non’ sul versante delle scelte di autonomia, di formazione di una famiglia, di partecipazione civica, di piena cittadinanza.
Il fenomeno non deve però essere letto solo in termini di costi, ma anche di mancata opportunità del ‘sistema paese’ di mettere la sua componente più preziosa e dinamica nella condizione di contribuire pienamente alla produzione di crescita presente e futura (Rosina, 2015).
La complessità e la varietà del ‘fenomeno NEET’ suggeriscono, quindi, una lettura sotto molteplici punti vista: psicologico, educativo, sociologico, economico e demografico. Proprio per questo motivo uno dei valori aggiunti del convegno è la prospettiva interdisciplinare: nell’arricchimento della conoscenza scientifica del fenomeno, nella riflessione su misura e metodo, nella valutazione dei programmi di ingaggio e attivazione. (..)
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