La voragine dei trentenni

estratti dell’articolo di Michele Tiraboschi pubblicato su Bollettino Adapt il 20 febbraio 2017

(…) E qui è necessario intendere esattamente chi sono i nostri “giovani” senza scadere, da un lato, nel giovanilismo e, dall’altro lato, in un atteggiamento altezzoso nei confronti di bamboccioni, choosy e sfigati vari. Ed è anche necessario capire a quali indicatori guardare per effettuare una seria diagnosi al nostro mercato del lavoro. Se infatti l’attenzione spesso si concentra sulla fascia d’età 15-24 anni, denunciando giustamente il mastodontico 40% di giovani disoccupati, questo dato potrebbe essere poco indicativo per valutare lo stato di salute del mercato e l’effetto delle riforme. Nel nostro Paese, e non è certo cosa di cui vantarsi, i giovani hanno percorsi di studio che terminano ben oltre i 24 anni, mentre gli stessi giovani e le loro famiglie danno ormai per scontato di svolgere i primi lavori al termine del percorso scolstico o universitario attraverso una sequenza di tirocini come se lo studio non fosse servito a nulla.

In realtà il dato più interessante e al tempo stesso drammatico è quello della fascia d’età tra i 25 e i 34 anni ed occorre osservarlo non tanto dal punto di vista dei tassi di disoccupazione quanto da quello degli inattivi e degli scoraggiati che un lavoro non lo cercano neppure. E si scopre così che se nel 2007, alle porte della crisi, lavoravano 70 persone su 100 in questa fascia d’età, oggi sono 60. Per capire la gravità di questi numeri basti pensare che il target europeo per l’occupazione tra i 20 e i 64 nel nostro Paese è del 75%. E non ci si può difendere con l’argomento demografico, sostenendo che l’invecchiamento della popolazione svuota le fila delle armate dei giovani. Qui parliamo di tassi di occupazione, un dato depurato dagli aspetti demografici.

Stiamo quindi espellendo dal mercato del lavoro la generazione con più laureati della storia del nostro paese e con maggiore attitudine alle tecnologie di nuova generazione. Un paradosso che fa male, e che le politiche degli ultimi anni hanno alimentato, ovviamente insieme al peso della crisi economica. La decontribuzione generalizzata infatti ha premiato quei lavoratori più maturi, magari in situazioni di disoccupazione a causa di ristrutturazioni aziendali, che le imprese non dovevano formare, o ha fatto sì che venissero stabilizzati lavoratori già occupati nelle imprese stesse. Non quindi una politica per i giovani. E peraltro neppure una politica di vera stabilizzazione se si considera il dato del superamento dell¹articolo 18.

(…) Il punto davvero critico resta però una seria riflessione sulla idea di lavoro nella grande trasformazione in atto della economia e della società indotta da fattori demografici e ambientali e da un tumultuoso progresso tecnologie. Ci pare infatti illusorio intestardirsi sull’utilizzo di contratti a tempo indeterminato che, dopo il Jobs Act, hanno ormai perso il connotato della stabilità e che soprattutto, come mostrano i trend dei nuovi avviamenti post-decontribuzione, non rispondono più alle esigenze della nuova economia e sempre spesso, anche se si ha paura a dirlo chiaramente, dei lavoratori. A ben vedere è proprio questo intestardirsi a far sì che chi vuole rapporti di lavoro più flessibili e autonomi, sempre in collaborazione con imprese, debba ricorrere a strumenti senza tutele e che portano a redditi miseri.

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