Di seguito pubblico un’estratto del capitolo I Dai Trenta gloriosi ai Trenta pietosi del libro La Scomparsa della sinistra in Europa (2016) di Aldo Barba e Massimo Pivetti. Un’ottima recensione del libro (assieme a quello di Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia) la fa Carlo Galli nell’articolo Il suicidio delle sinistre.
1. Le vicende che hanno portato alla scomparsa della sinistra in Europa sono destinate a restare in larga misura oscure senza un’analisi della grande svolta di politica economica avvenuta tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Si tratta di mettere a fuoco i contorni del progetto economico e politico in cui ci troviamo tuttora immersi, riuscire a coglierne i determinanti, i principali contenuti, gli esiti. In altre parole, è necessario porre in discussione un ordine economico e sociale impostosi come il solo razionale e possibile. Scriveva lo scienziato politico Steven Weber nel 1997 su Foreign Affairs:
“L’economia delle nazioni occidentali è stata sin dalla rivoluzione industriale un mondo vibrante caratterizzato da rapida crescita e sviluppo, almeno per i Paesi del “nucleo” industrializzato. Ma essa è stata pure un mondo di continue e spesso enormi fluttuazioni dell’attività economica. I cicli industriali – espansioni e contrazioni diffuse a quasi tutti i settori di un’economia – hanno finito per essere accettati come un fatto della vita. Tuttavia, le economie moderne operano differentemente dalle economie industriali del diciannovesimo secolo e della prima parte del ventesimo secolo. Cambiamenti nella tecnologia, nell’ideologia, nelle occupazioni e nella finanza, di concerto con la globalizzazione della produzione e del consumo, hanno ridotto la volatilità dell’attività economica nel mondo industrializzato. Per ragioni sia teoriche che pratiche, nei Paesi industrialmente più avanzati le onde del ciclo industriale potrebbero diventare più simili ad increspature sulla superficie dell’acqua, che vanno via via a scomparire. La fine del ciclo è destinata a cambiare l’economia mondiale, minando alla base le assunzioni e gli argomenti che gli economisti hanno utilizzato per comprenderla.”
Considerazioni trionfalistiche come queste ben esprimono il clima intellettuale entro il quale si è andato strutturando il nuovo assetto di politica economica che i Paesi industrialmente avanzati si sono dati dalla fine degli anni Settanta. Niente meno che una “nuova era” sarebbe stata aperta dal cambiamento tecnologico e dalla rimozione degli ostacoli ideologici che avevano impedito lo sviluppo globale della finanza, della produzione e del consumo. Le crisi economiche, un tempo percepite come connaturate al capitalismo, non erano in realtà che la manifestazione di una sua immaturità. Più precisamente, andavano comprese collocandole entro la fase di sviluppo caotico e instabile apertasi con l’insorgere delle istanze protezionistiche e nazionalistiche tra la prima e la seconda guerra mondiale e avviatasi a conclusione con il neo-conservatorismo di Reagan e della Thatcher: nelle parole del premio Nobel per l’economia Robert Lucas, «la Macroeconomia […] ha raggiunto i suoi scopi: il suo problema centrale, la prevenzione della depressione, è stato risolto ed è nei fatti risolto per molti decenni».”