Un equilibrio tra 3 componenti

Di seguito l’articolo Un equilibrio tra tre componenti tratto da Buddismo e società n. 195.

L’idea di sviluppo sostenibile si basa sulla consapevolezza che le tre dimensioni ambientale, economica e sociale siano inscindibili e profondamente interconnesse. In questo senso, la definizione di sviluppo sostenibile come di equità tra generazioni implica anche, per coerenza, l’equità all’interno di ogni generazione.
La sostenibilità inter-generazionale è di tipo ambientale e intende garantire la libertà di scelta alle generazioni future, libertà che dipende in modo cruciale dall’integrità dell’ambiente naturale che esse riceveranno in eredità. Quella intra-generazionale è di tipo socio-economico e intende garantire a tutti e tutte pari opportunità. Ciò può avvenire soltanto se viene garantita una sostanziale uguaglianza dei “punti di partenza”, cioè l’accesso effettivo a tutte le opportunità economiche e adeguati livelli di benessere sociale. La povertà, la denutrizione, le malattie riducono considerevolmente l’accesso a tali opportunità. Benessere e felicità, inoltre, dipendono non solo dalla povertà assoluta ma anche da quella relativa, ovvero da disuguaglianze nella distribuzione dei redditi. Analogamente, l’inquinamento dei beni ambientali limita la disponibilità delle risorse naturali e ne riduce la qualità rendendone impossibile alcuni impieghi. Se per esempio inquiniamo l’acqua ne limiteremo il suo utilizzo come bene necessario per il sostentamento fisico: per bere o per igiene personale o per le attività agricole e l’irrigazione dei campi.
Livelli crescenti di disuguaglianza e degrado ambientale possono avere conseguenze negative anche per l’andamento dell’economia. Basta pensare ai cambiamenti climatici che derivano dall’innalzamento della temperatura globale: provocati dalle attività antropiche e da un’idea di sviluppo economico senza limiti, nei prossimi anni porteranno a una riduzione delle produttività della terra e delle risorse naturali, a un aumento del numero di eventi climatici estremi e quindi dei relativi problemi di salute per i lavoratori con una riduzione della produttività e del lavoro, a un innalzamento del livello dei mari e a un aumento del fenomeno migratorio. Per di più il deterioramento ambientale peggiora le condizioni dei poveri, che a loro volta si trovano costretti a sfruttare ulteriormente le risorse naturali per assicurarsi la sopravvivenza giornaliera. Elevati livelli di disuguaglianza possono causare tensioni sociali e politiche, che spesso hanno effetti negativi sulla crescita del reddito e scoraggiano gli investimenti.
È chiaro allora che soltanto la considerazione della triplice dimensione dello sviluppo può essere fonte di un vero miglioramento del benessere degli esseri umani e garantire che le attività economiche siano compatibili con l’equità sociale, gli ecosistemi e l’equilibrio ambientale. (Carlo Orecchia)

Fonte: Simone Borghesi e Alessandro Vercelli, La sostenibilità dello sviluppo globaleCarocci, 2005

Qualcosa si muove?

Non lo so se qualcosa si muove verso quanto meno un riconoscimento formale, ma meglio di niente.

Lo scorso primo aprile la Camera dei Deputati ha votato una mozione che, tra le varie cose, impegna il Governo:
– a dare immediata e piena attuazione alla direttiva del marzo 2018, istituendo la Commissione nazionale per lo sviluppo sostenibile presso la Presidenza del Consiglio dei ministri affinché si attuino la regia e il coordinamento delle politiche di sostenibilità, attraverso anche aggiornamenti periodici della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile e le politiche inerenti all’attuazione della strategia stessa;
– ad assumere iniziative affinché i provvedimenti legislativi e attuativi della strategia contengano una relazione tecnica sugli impatti attesi sui singoli obiettivi per lo sviluppo;
ad assumere iniziative per rendere obbligatorio l’impegno del Governo entro il febbraio di ogni anno a presentare al Parlamento una relazione sull’attuazione della Strategia nazionale di sviluppo sostenibile, sia in relazione all’attuazione del Piano nazionale di sviluppo sostenibile, sia in relazione agli impatti della legge di bilancio dello Stato;
– ad avviare una campagna nazionale, anche in coordinamento con altre istituzioni pubbliche e scientifiche, con enti e associazioni private, di informazione rivolta ai cittadini, al mondo delle imprese e della finanza, sugli obiettivi da raggiungere contenuti nell’Agenda 2030 e sulla responsabilità che ricade su ogni cittadino o impresa;
ad avviare un tavolo permanente con le regioni, le province autonome di Trento e Bolzano e gli enti locali per coordinare le azioni a favore dello sviluppo sostenibile di competenza dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni;
 – ad avviare un’ampia consultazione nel Paese e tra le istituzioni per costruire una proposta programmatica e politica che sostenga la candidatura dell’Italia ad ospitare la 26a Cop nel 2020 a Milano;
ad avviare un ampio confronto sul tema della sostenibilità in relazione anche al documento di riflessione predisposto dalla Commissione europea «Verso un’Europa sostenibile entro il 2030», tenendo conto che il prossimo Consiglio europeo sarà chiamato ad esprimersi su tale documento;
– ad avviare, nel Paese, un ampio percorso-confronto al fine di definire iniziative normative volte ad introdurre, attraverso le opportune procedure, nella Carta costituzionale il principio dello sviluppo sostenibile come principio fondamentale della Repubblica. […]

Appello 2018 L’impegno delle forze politiche per portare l’Italia su un sentiero di sviluppo sostenibile 22-01-2019

Discorso del presidente dell’Asvis al Senato 

Ampio consenso delle forze politiche sulle proposte dell’Alleanza 27.02.2019

Avviata la raccolta firme per inserire lo sviluppo sostenibile in Costituzione 10.04.2019

La proposta di Più Europa per la modifica degli articoli 2 e 9 della Costituzione in materia di equità generazionale, sviluppo sostenibile e tutela dell’ambiente

Lo Studio dell’educazione civica dal prossimo anno 8.05.2019

Il 2° Rapporto sul divario generazionale

Di seguito l’abstract del 2° Rapporto 2018 della Fondazione Bruno Visentini intitolato  Il divario generazionale: un patto per l’occupazione dei giovani di prossima uscita.

Nel I Rapporto della Fondazione Bruno Visentini su “Il divario generazionale tra conflitti e solidarietà”, pubblicato nel marzo del 2017, è stata per la prima volta messa in rilievo la gravità del divario generazionale che colpisce e potenzialmente potrebbe colpire oltre 12 milioni di persone, tanti sono i cittadini italiani tra i 15 e il 34 anni, i più giovani dei quali appartenenti alla ‘generazione Zero’ (la fascia fino a 18 anni) e gli altri ai ‘Millennials’ (la fascia 19-34 anni). Tra questi, secondo le rilevazioni Istat per l’anno 2017, oltre un quarto sono in condizioni di inoccupazione, volontaria o meno, i cosiddetti Neet (i giovani non impegnati nello studio, né nel lavoro, né nella formazione). Il dibattito che ne è derivato ha preso spunto dalla costatazione, evidenziata nel Rapporto, che se non si dovesse intraprendere tempestivamente una strategia di contrasto a tale divario, nel 2030 potremmo assistere a un’intera generazione incapace di maturare e di assicurarsi una vita autonoma se non quando ultraquarantenne.
Come sovvertire questo stato di cose? Nel citato Rapporto del 2017 si sono tracciate le prime linee guida di un vero e proprio nuovo piano Marshall per i giovani italiani, così sintetizzabili: a) la creazione di una legge quadro che metta a sistema tutte le misure generazionali presenti nel nostro ordinamento e quelle da introdurre; b) una dotazione di circa trenta miliardi di euro in tre anni, che permetta di ridurre nel medio periodo l’attuale equivalente costo alla collettività dei Neet (stima Eurofound); c) l’istituzione di un fondo per il sostegno di questo piano alimentato in larga misura da un prelievo temporaneo sulle pensioni più elevate.

Il II Rapporto 2018 della Fondazione, intitolato “Il divario generazionale: un patto per l’occupazione dei giovani”, mette a fuoco un Indice di divario generazionale, il GDI 2.0, più sofisticato del precedente con un paniere di indicatori più articolato (cap.1); le prospettive dei giovani legate alle nuove professioni, tra mansioni e competenze (cap.2); un atlante delle misure generazionali e delle misure non generazionali ma con impatto nella riduzione del divario (cap. 3), e un’analisi delle buone pratiche rilevate in 19 paesi nel mondo (cap.4).
Nell’ultimo capitolo (cap.5) viene presentata la proposta del piano di intervento per ridurre il divario generazionale, ulteriormente articolata e dettagliata. Essa in particolare prevede che le risorse possano essere rese disponibili grazie a una riprogrammazione delle numerose e frammentate misure generazionali (talune anche cofinanziate da fondi europei, come ad es. la Garanzia Giovani) e la relativa concentrazione in un unico strumento di conto individuale per i giovani, definito “Una mano per contare” perché prevede cinque misure a sostegno dell’occupazione giovanile a costo zero, grazie alla razionalizzazione e messa a sistema delle risorse esistenti, che concernono in dettaglio:
1- Transizione dalla scuola al mondo del lavoro
2- Ricerca e sviluppo in azienda
3- Formazione e orientamento all’occupazione
4- Impiego e autoimpiego
5- Bonus abitazione.

La creazione di questo conto prevede la possibilità, nell’arco di 20 anni (dai 16 anni ai 34), di acquisire servizi/benefit fiscali/sgravi contributivi per integrare le proprie esperienze di alternanza scuola lavoro, fare ricerca nelle imprese, orientamento, formazione continua, esperienza di attività imprenditoriale, poter disporre di una casa e di servizi di supporto alla nuova famiglia.

In conclusione, il II Rapporto 2018 della Fondazione Bruno Visentini non invita solo ad una riflessione più approfondita sul fenomeno del divario generazionale e le sue implicazioni economiche, sociali ed etiche, ma fornisce al legislatore una piattaforma di interventi tra loro coordinati senza un gravame ulteriore sui conti dello Stato. Ciò che quindi non lascia spazio a ulteriori alibi avanzati da coloro che ritengono non attuabile un intervento a salvaguardia dei diritti dei nostri cittadini più giovani. Diritti sanciti, come già evidenziato nel precedente Rapporto, dall’Art. 3, secondo comma, della nostra Carta Costituzionale.

Manifesto GIG abbozzato

Intro

Nel mondo, la giustizia intergenerazionale trova scarsa applicazione perché le poche norme volte a tutelare e a garantire le generazioni future – sia nel diritto internazionale, sia nei vari diritti nazionali –  hanno per lo più carattere di principio o di indirizzo, senza però prevedere procedure o strumenti per far valere i diritti in sede giudiziale. Nella stessa Costituzione italiana, sebbene per alcuni versi si possa ritenere tacita (artt. 2, 4 e 9 Cost.), manca qualsiasi riferimento esplicito alla tutela dei diritti e degli interessi delle successive generazioni.

Purtroppo, viviamo in un epoca in cui sembra difficile tutelare tutti i componenti delle generazioni presenti, un’epoca dove i primi articoli della Costituzione non si riescono ad applicare e dove le disuglianze sociali ed economiche stanno aumentando.

Tutelare per legge le generazioni future potrebbe forse essere il primo passo per tutelare maggiormente le generazioni presenti.

Raffaele Bifulco sottolinea che “esiste un obbligo, in capo alla generazione presente, di continuare la catena intergenerazionale, di evitare quindi l’estinzione della specie umana. L’esistenza di tale obbligo è infatti presupposta nello scopo stesso del diritto che, in quanto regolatore sociale, si occupa della sopravvivenza dell’uomo” (2008).

Cornice base

Il principio di responsabilità e l’imperativo “che vi sia un’umanità” di Hans Jonas (v. Il principio responsabilità, 1979) sintetizzabile in: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla Terra”. 

I tre principi alla base dell’equità intergenerazionale di Edith Brown Weiss:

  1. La conservazione delle opzioni (conservation of options): a ciascuna generazione dovrebbe essere richiesto di conservare e mantenere la diversità delle risorse naturali e culturali in modo tale da non ridurre le opzioni possibili per le future generazioni di risolvere i loro problemi e di soddisfare i loro stessi valori. Le generazioni future hanno diritto alla diversità pari a quella goduta dalla precedente generazioni;
  2. La conservazione della qualità (conservation of quality): a ciascuna generazione dovrebbe essere richiesto di mantenere la qualità del pianeta in modo tale che questo non venga trasmesso in condizioni peggiori di quelle in cui è stato ricevuto;
  3. La conservazione dell’accesso (conservation of access): ciascuna generazione dovrebbe fornire ai suoi membri uguali diritti di avvesso all’eredità delle generazioni passate e dovrebbe conservare questo accesso per generazioni future.

La Costituzione Italiana:

1 L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al 
progresso materiale o spirituale della società.

9 La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

11 L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Auspici per un futuro prossimo:

  1. Maggiore consapevolezza e attenzione degli organi politici e di informazione sulle questioni intergenerazionali;
  2. L’ampliamento della soglia minima di età dell’elettorato attivo, includendo i cittadini di anni 16;
  3. L’inserimento esplicito della tutela dei diritti delle generazioni presenti e future nella Costituzione e nei vari statuti regionali;
  4. L’istituzione di una Commissione con potere di veto e di indirizzo per materie legislative riguardanti le differenti generazioni, incluse quelle future (v. ad es. il tentativo fatto dal Parlamento Israeliano con la Commission for Future Generations)
  5. L’adozione di politiche intergenerazionali a livello ambientale, economico e sociale da parte delle istituzioni nazionali e locali (in linea con i Sustainable Development Goals – Agenda 2030);
  6. L’applicazione di quante più convenzioni, dichiarazioni e carte varie a tutela del futuro dell’uomo e del pianeta;
  7. La creazione di una speciale Corte di Giustizia a tutela delle generazioni giovani e future. 

Ulteriori spunti da:

World Future Council – Future Justice

Intergenerational Foundation – A Manifesto for Younger and Future Generations

AGE Platform EuropeManifesto for an Age-Friendly European Union by 2020



Biblio:

Generazioni disuguali, una decisione politica

Generazioni disuguali, (a cura di) A. Schizzerotto, U. Trivellato e N. Sartor (2011) è uno dei migliori libri sul tema delle differenze e delle disuguaglianze tra le generazioni. Il volume esamina le variazioni delle condizioni di vita dei giovani nel volgere delle generazioni che si sono succedute nell’ultimo mezzo secolo in Italia e contiene i risultati di una ricerca, sviluppata nell’arco di un biennio, su alcuni profili delle disuguaglianze intergenerazionali, considerate in un’articolata comparazione tra la realtà italiana odierna e quella della seconda metà del secolo scorso.

Di seguito, un piccolo estratto del capitolo I giovani di oggi stanno peggio di quelli di ieri?

generazioni disuguali

[…] Si può affermare, dunque, che il peggioramento della posizione delle giovani generazioni non è stato solo un accidente legato al momento storico in cui la necessità del risanamento è emersa con urgenza, ma in buona parte il risultato della decisione politica di ricorrere a strumenti non rispettosi del criterio di equità intergenerazionale. […]

Ma perché le condizioni correnti e, ancor più, le prospettive di vita dei giovani d’oggi sono peggiorate rispetto a quelle dei loro padri quando questi ultimi avevano la loro stessa età? Pensiamo che la risposta vada ricercata nell’interazione tra effetti differenziali di coorte e di periodo. (..) Dalla metà degli anni ’90 il nostro sistema economico ha smesso di crescere, in assoluto e comparativamente ad altri paesi sviluppati. Basti segnalare che, fatto 100 il Pil pro capite a parità di poteri di acquisto dell’Ue15, quello dell’Italia è passato da oltre 104 nel 1995 a 90 nel 2010! Nell’ultimo quindicennio, poi, sono state poste in atto politiche di bilancio – in particolare, in materia pensionistica – e misure di regolazione e politiche passive del lavoro, che hanno penalizzato fortemente, in buona misura con effetti che si preannunciano duraturi, i giovani. Di conseguenza è il futuro, ancora più del presente, che si presenta con tinte grigie agli occhi dei giovani di oggi. Per loro sarà difficile sia raggiungere livelli di benessere analoghi a quelli che raggiungeranno, da adulti, i loro coetanei dei paese sviluppati dell’Ue, sia migliorare le condizioni di vita rispetto a quelle dei genitori. Quest’ultima eventualità appare preoccupante anche sotto il profilo della tenuta del tessuto sociale, perché disegna una discontinuità rispetto alle esperienze di tutte le coorti di giovani che si sono succedute nel corso dell’intero ‘900. Pur a fronte di gravi shock – i due conflitti mondiali e la crisi del 1929, esse sono infatti riuscite a innalzare il tenore e le prospettive di vita rispetto a quelli/e dei rispettivi genitori. Ed è proprio questa possibilità che, invece, sta venendo meno ai giovani italiani di oggi.
Vi può essere, per loro (e per noi), qualche speranza che queste congetture non si avverino? Sì, a quattro condizioni: che la congiuntura economica cambi velocemente di segno; che si avvii un processo di crescita sostenuto e sostenibile; che vengano poste in atto politiche redistributive eque e robuste; che capacità e competenza personali vengano riconosciute e premiate.
Guardando alla situazione del nostro pese, queste quattro condizioni paiono configurare più un libro dei sogni che una prospettiva realisticamente percorribile. Ma la storia è segnata da discontinuità, non soltanto da inezie. E dentro la “ragione” trovano spazio anche le “passioni”. Quindi, non disperiamo di essere smentiti.

Sulle disuguaglianze

È uscito da poco il report INEQUALITY AND PROSPERITY IN THE INDUSTRIALIZED WORLD: addressing a growing challenge a cura di Citi GPS e Oxford Martin School che fa il punto sulla situazione delle disuguaglianze nelle economie industriali.

#stefanobosso ph., Al Khawr, 2017


Cosa sono le disuguaglianze? Come si misurano? Con quali le conseguenze?

Il Dizionario di Sociologia di Luciano Gallino dà della disuguaglianza sociale la seguente definizione: Molte differenze oggettive esistenti tra i membri di una collettività, specie in campo economico e giuridico, o tra un insieme di individui qualsiasi e i loro gruppi di riferimento tendono a essere socialmente definite come disuguaglianze, e a causare azioni e reazioni volte a eliminarle, allorché si verificano congiuntamente le seguenti condizioni: 1) dette differenze si esprimono sotto forma di possesso di quantità più o meno grandi di risorse socialmente rilevanti, ovvero in una maggiore o minore possibilità di accesso a uno status superiore; 2) sono considerate il prodotto di meccanismi di selezione sociale intesi a mantenere un dato ordine sociale, più che del merito o delle doti individuali, ovvero – a seconda del lato delle differenze cui ci si riferisce – dell’assenza di merito o di doti appropriate; 3) appaiono, almeno in linea di principio, superabili mediante azioni dirette a modificare i meccanismi di selezione, o a eliminarli, trasformando più o meno radicalmente l’ordine sociale a cui si ritengono connaturati; 4) sono interpretate dalla coscienza sociale dei soggetti più sfavorevoli, o dai loro portavoce intellettuali o politici, come una ingiustizia.
Le principali disuguaglianze osservabili in una società, connesse alle sue fondamentali strutture economiche e politiche, costituiscono un sistema di stratificazione sociale. A sua volta una classe sociale rappresenta una causa di disuguaglianza sociale se il termine è usato nell’accezione realista o organica; mentre una manifestazione delle disuguaglianze esistenti se si usa il termine secondo l’accezione nominalistica o ordinale.

Ampissima è la letteratura sul tema delle disuguaglianze. Per farsi un’idea, i primi libri che mi vengono in mente sono: La misura dell’anima di R. Wilkinson e K. Pickett, Disuguaglianze di M Franzini e M. Pianta, La grande frattura di J. Stiglitz, od anche Quanto è abbastanza di M. e E. Skidelsky.

Economia. Istruzioni per l’uso

Ma è nel libro di Ha-Joon Chang Economia. Istruzioni per l’uso che ho trovato una delle migliori spiegazioni. Il libro è una sorta di “Economics for dummies” e cerca di illustrare in modo chiaro ed intelligente i principali concetti per capire l’economia di oggi, con l’aiuto di molti pratici riferimenti e dati reali. Come sottolinea l’autore nell’introduzione: “La scienza economica è riuscita particolarmente bene a tenere a distanza il grande pubblico. La gente è sempre pronta a far sentire la propria opinione su qualunque cosa, pur non avendo le competenze necessarie: cambiamento climatico, matrimoni gay, guerra in Iraq, centrali nucleari.. Ma quando si parla di questioni economiche, molti non mostrano di avere alcun interesse, figuriamoci un’opinione chiara in merito. […] Se in economia non esiste un’unica risposta esatta, allora non possiamo lasciare tutto in mano agli esperti. In altre parole, ogni cittadino responsabile deve imparare un po’ di economia, il che non significa procurarsi un librone di testo e assimilare una prospettiva economica particolare. Ciò che serve  studiare l’economia per essere consapevoli che esistono diversi tipi di tesi economiche e sviluppare lo spirito critico per valutare quale posizione sia più sensata in una determinata situazione e ala luce di determinati valori morali e obiettivi politici. […]”

Di seguito riporto un paio di paragrafi estratti dal capitolo “La capra di Boris dovrebbe crepare”.

Troppa disuguaglianza fa male all’economia: instabilità e mobilità ridotta

Non credo che siano in molti ad auspicare un egualitarismo estremo come quelli della Cina maoista o della Cambogia di Pol Pot. Tuttavia, molti sostengono che una disuguaglianza troppo accentuata sia un fattore negativo non solo dal punto di vista etico, ma anche in termini economici.
altri economisti hanno sottolineato che un altro livello di disparità riduce la coesione sociale, favorisce l’instabilità politica e, di conseguenza, frena gli investimenti. L’instabilità politica rende incerto il futuro e, di riflesso, la redditività degli investimenti, che per definizione si riscontra nel futuro. Minori investimenti significano minore crescita.
La disuguaglianza elevata accentua anche l’instabilità economica, che nuoce alla crescita. Quando un’altra percentuale del reddito nazionale è riservata alle persone più ricche, può darsi che il tasso di investimenti cresca, ma questo significa anche che l’economia sarà più soggetta all’incertezza e all’instabilità, come sottolineava Keynes. Molti economisti hanno anche evidenziato come la crescente disuguaglianza abbia svolto un ruolo di rilievo nella crisi finanziaria globale del 2008, soprattutto negli Stati Uniti, dove i redditi più alti sono lievitati, mentre i salari reali erano fermi dagli anni settanta. Per stare al passo con i nuovi standard di consumo, la gente comune si è indebitata e l’aumento del debito delle famiglie (in percentuale sul Pil) ha reso l’economia più vulnerabile agli shock.
Per altri, la disuguaglianza riduce la crescita economica perché limita la mobilità sociale. L’istruzione costosa che solo un’esigua minoranza può permettersi, ed è necessaria per ottenere posizione ben pagate, i legami personali all’interno di un gruppo ristretto e privilegiato (ciò che il sociologo Pierre Bourdieu chiamava “capitale sociale”), e persino la “sottocultura” delle élite (per esempio, modi di esprimersi e atteggiamenti che si acquisiscono nelle scuole più esclusive) possono fungere da ostacoli alla mobilità sociale.
Una mobilità ridotta significa che le persone capaci provenienti da ambienti poveri sono escluse dalle professioni più remunerative e sprecano il loro talento, provocando perdite sia a livello personale sia per l’intera società. Significa anche che tra coloro che occupano i posti più prestigiosi non c’è il meglio che la società potrebbe offrire se la mobilità sociale fosse maggiore. Se perdurano per generazioni, questi ostacoli spingono i giovani delle classi meno privilegiate a smettere persino di cercare posti di lavoro migliori. Ciò conduce a una sorta di riproduzione “endogamica” delle élite sul piano culturale e intellettuale. Se è vero che i grandi cambiamenti richiedono idee nuove e condotte anticonformiste, una società con un’élite autoreferenziale rischia di non riuscire a produrre innovazione. Ne segue un calo del dinamismo economico.

[…]

Note conclusive: perché troppa povertà e disuguaglianza non sono fuori dal nostro controllo

La povertà e la disuguaglianza sono diffuse in modo allarmante. Una persona su cinque nel mondo, vive ancora in condizioni di povertà assoluta, e persino in alcuni paesi avanzati, come Stati Uniti e Giappone, una su sei vive in povertà (relativa). Con l’eccezione di una manciata di paesi europei, la disuguaglianza di reddito assume proporzioni tra il grave e lo sconvolgente.
Fin troppe persone accettano tali condizioni come l’inevitabile effetto delle innate differenze di capacità tra gli individui. Ci viene chiesto di convivere con queste realtà nello stesso modo in cui si convive con terremoti e vulcani. Ma, come evidenzia questo capitolo, si tratta di sistuazioni soggette all’intervento umano.
Dato il considerevole livello della disuguaglianza in molti paese indigenti, la povertà assoluta (al pari di quella relativa) può essere ridotta anche senza un aumento della produzione, ma con un’appropriata ridistribuzione del reddito. Nel lungo periodo, però, per limitarla significativamente è necessario lo sviluppo economico, come ha dimostrato la Cina negli ultimi tempi.
I paese avanzati hanno praticamente sconfitto la povertà assoluta, ma alcuni presentano alte percentuali di povertà relativa e disuguaglianza. Il fatto che i tassi di povertà (relativa, 5-20 per cento) e i coefficienti di Gini (0,2-0,5) varino in modo significativo tra questi paesi suggerisce che in quelli con maggior povertà e disuguaglianza, come gli Stati Uniti, è possible ridurre notevolmente questi fenomeni con un intervento dello stato.
Chi si ritrova in miseria, inoltre, dipende molto dagli interventi pubblici. Per cercare di uscirne con le proprie forze, deve poter contare su condizioni più eque per i bambini (migliori misure di welfare e istruzione), maggiori possibilità di accesso al lavoro (abbattimento delle discriminazioni e delle “caste” ai livelli più alti) e lotta alla manipolazione dei mercati da parte di ricchi e potenti.
Nella Corea preindustriale si diceva che “persino il re più potente non può fare nulla contro la povertà”. Se mai questa affermazione è stata vera, oggi non lo è più. Il mondo produce a sufficienza per eliminare la povertà assoluta. Anche senza una redistribuzione globale del reddito, qualsiasi paese, tranne i più poveri, produce a sufficienza per sconfiggerla. La disuguaglianza non può essere eliminata del tutto, ma con opportune politiche potremmo vivere in società eque, come molti norvegesi, finlandesi, svedesi e danesi potrebbero raccontarvi.

Un paio di vecchi articoli con Ha-Joon Chang:
Economics is too important to leave to the experts
Five minutes with Ha-Joon Chang: “Members of the general public have the duty to educate themselves in economics”

Tornando al report Inequality and Prosperity in the Industrialized World, di seguito riporto alcuni estratti:

[…] Against this background, our research program will focus on identifying the impacts
of inequality on economic growth potential, social cohesion, and the political
process. On the back of this, we shall collaboratively suggest a coherent set of
responses that would address rising inequality in a manner that promotes inclusive
growth.

Continua a leggere l’estratto o leggi l’intero report

Una generazione “a galla”

Dall’Australia, un nuovo report uscito nel mese di settembre ci racconta come anche lì i giovani non se la passino proprio bene: il tradizionale percorso verso l’età adulta sembra non esistere più e farsi una carriera, comprarsi una casa, sposarsi e poi finalmente “sistemarsi” per molti non sembrano più essere degli obiettivi realistici.

#stefanobosso ph., West-Flanders skies and fields and feet, 2016

#stefanobosso ph., West-Flanders skies and fields and feet, 2016


Il report in questione è Gen Y on Gen Y , (parte del programma Life Patterns program, dell’Università di Melbourne) che ha tracciato la vita di circa 515 membri della Generazione Y, ora dell’età di 28-29, da quando erano undicenni (nel 2005). In questo report viene documentata la transizione di questi giovani verso l’età adulta grazie a delle interviste in focus group, nelle quali sono state poste una serie di domande su svariati temi tra cui: l’educazione e il lavoro, le loro relazioni, il loro benessere, le loro speranze, i loro piani per il futuro, le strategie da intraprendere per migliorare la propria vita. 

Quello che emerge è la storia di una generazione stretched and stressed” che cerca in qualche modo di rimanere a galla. Una generazione che, nello sforzo di assicurarsi delle entrate per lo più modeste, si possa permettere un minimo di sicurezza lavorativa ed abitativa, un equilibrio tra lavoro e vita privata, delle relazioni sociali positive e una salute mentale e fisica.

Lì, come da noi, il problema più grande è determinato dalla precarietà lavorativa, fatta di contratti a termine e di lavori ad intermittenza. Questa precarietà, sempre più esistenziale e cronica, sta erodendo la capacità di un’intera generazione di “andare oltre” con la propria vita e di entrare definitivamente nella fase adulta, con possibilità di progetti di vita a medio-lungo termine. Al momento infatti, preoccupazioni e stress maggiori sono causati dal trovare case a prezzi abbordabili e dal ripagare i debiti fatti durante gli anni di studio

Come ci dice il report, la generazione Y sta focalizzando le proprie energie su strategie volte alla gestione del cambiamento degli obiettivi di vita. C’è un emergente consapevolezza che il futuro (seppur modesto) da loro immaginato si stia “allontanando nel tempo” e che non sia più alla loro portata. Obiettivi base – avere un lavoro sicuro che permetta di guadagnare il necessario per vivere una vita dignitosa, comprare una casa e impegnarsi in una relazione stabili – e che erano dati per scontati per le precedenti generazioni oggi sembrano più difficili da raggiungere. Non si parla neanche più di mutuo o pensione futura, ma di sopravvivenza base. Ad esempio, uno degli intervistati dice: I’ve only just started full-time work again this year . . . I have no aspiration to really get a house any time soon, because I know that it’s so unattainable at this point.” Un altro dice: “I feel like a lot of us – looking at my friends and stuff – and even my brothers and sisters, we’re all sort of the same age – but all of us are just kind of – we’re just staying afloat.

L’effetto cumulativo di queste condizioni ha fatto sì che la generazione Y abbia perso un percorso di vita sicuro e che sia in balia di forze economiche sulle quali nessuno ha più controllo.
Nonostante questa generazione abbia fatto tutte le cose “giuste” (investire nell’educazione ed essere umili e flessibili riguardo le condizioni lavorative), è stata schiacciata dalle riforme lavorative, dalle politiche abitative e dai processi globali che ne hanno minato la valenza e la legittimità per andare avanti.

Per molti, quindi “rimanere a galla” è diventato il più ragionevole degli obiettivi di vita.

Similmente a quella italiana, questa generazione di giovani australiani vive con un senso pervasivo di stress e pressioni, per far fronte all’imprevedibilità futura delle entrate economiche personali, e per cercare di mantenere quanto più possibile gli standard di vita che la generazione dei genitori aveva raggiunto e i cui figli avevano beneficiato.
Rimane un forte senso di disgiunzione tra le “promesse” di gratificazioni che sarebbero dovute venire dopo gli investimenti negli studi e l’effettiva realtà lavorativa. 
Fondamentale risulta il supporto, i consigli e le conferme dati da famiglia, partner ed amici per limitare quanto più lo stress e per affrontare i momenti più difficili.

Una buona sintesi del report è data nell’articolo A generation dislodged: why things are tough for Gen Y  di J. Wyn e H. Cahill dell’Università di Melbourne.

Conflitto ed equità tra le generazioni

Di seguito il paragrafo 7 Conflitto ed equità tra le generazioni estratto da Generazioni di A. Cavalli.

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La stagione dei movimenti giovanili a cavallo tra gli anni sessanta e settanta ha riproposto, nell’interpretazione di molti studiosi (v., per tutti, Feuer, 1969), un’analisi in termini di conflitto tra le generazioni. Tale conflitto sarebbe la manifestazione ricorrente dell’eterna tendenza dei figli a contrapporsi ai padri per affermare la propria indipendenza e identità. Questa interpretazione trova sostegno nella concezione psicanalitica del processo di crescita che vede nell’uccisione simbolica del padre una tappa inevitabile per l’affermazione del Sé come entità separata. Tuttavia, se da un lato questa interpretazione è dubbia anche sul piano individuale (infatti l’universalità del ‘complesso edipico’ è stata seriamente messa in discussione), dall’altro lato non serve certo per spiegare la comparsa di generazioni come fenomeni collettivi. Come abbiamo già visto, non solo per lunghi periodi vi è spesso continuità tra classi di età, ma anche là dove si verificano delle discontinuità, e si formano quindi delle generazioni distinte, il rapporto tra di esse non è necessariamente conflittuale.
Recentemente il tema del conflitto tra generazioni è stato ripreso in termini molto diversi, come conflitto di tipo distributivo tra le generazioni degli adulti e le generazioni dei giovani e tra le generazioni presenti e le generazioni future. Tali conflitti trovano un fondamento ‘oggettivo’ nei meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro, nel finanziamento dei sistemi pensionistici, nell’accumulazione del debito pubblico e nei processi irreversibili di degrado ambientale (v. Thomson, 1989; v. Scamuzzi, 1990, v. Sgritta, 1991).
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, le politiche di tutela dell’occupazione si risolvono spesso a vantaggio di coloro che sono già occupati (in genere, adulti) e a svantaggio di coloro che sono in cerca di prima occupazione (in genere, giovani). Il rapporto, nella disoccupazione totale, tra giovani in cerca di prima occupazione e lavoratori che hanno perso il posto di lavoro è una misura di questo aspetto del conflitto tra generazioni: quando cresce il numeratore vuol dire che il rapporto tra le generazioni si sposta a svantaggio delle leve più giovani.

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