Qualcosa si muove?

Non lo so se qualcosa si muove verso quanto meno un riconoscimento formale, ma meglio di niente.

Lo scorso primo aprile la Camera dei Deputati ha votato una mozione che, tra le varie cose, impegna il Governo:
– a dare immediata e piena attuazione alla direttiva del marzo 2018, istituendo la Commissione nazionale per lo sviluppo sostenibile presso la Presidenza del Consiglio dei ministri affinché si attuino la regia e il coordinamento delle politiche di sostenibilità, attraverso anche aggiornamenti periodici della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile e le politiche inerenti all’attuazione della strategia stessa;
– ad assumere iniziative affinché i provvedimenti legislativi e attuativi della strategia contengano una relazione tecnica sugli impatti attesi sui singoli obiettivi per lo sviluppo;
ad assumere iniziative per rendere obbligatorio l’impegno del Governo entro il febbraio di ogni anno a presentare al Parlamento una relazione sull’attuazione della Strategia nazionale di sviluppo sostenibile, sia in relazione all’attuazione del Piano nazionale di sviluppo sostenibile, sia in relazione agli impatti della legge di bilancio dello Stato;
– ad avviare una campagna nazionale, anche in coordinamento con altre istituzioni pubbliche e scientifiche, con enti e associazioni private, di informazione rivolta ai cittadini, al mondo delle imprese e della finanza, sugli obiettivi da raggiungere contenuti nell’Agenda 2030 e sulla responsabilità che ricade su ogni cittadino o impresa;
ad avviare un tavolo permanente con le regioni, le province autonome di Trento e Bolzano e gli enti locali per coordinare le azioni a favore dello sviluppo sostenibile di competenza dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni;
 – ad avviare un’ampia consultazione nel Paese e tra le istituzioni per costruire una proposta programmatica e politica che sostenga la candidatura dell’Italia ad ospitare la 26a Cop nel 2020 a Milano;
ad avviare un ampio confronto sul tema della sostenibilità in relazione anche al documento di riflessione predisposto dalla Commissione europea «Verso un’Europa sostenibile entro il 2030», tenendo conto che il prossimo Consiglio europeo sarà chiamato ad esprimersi su tale documento;
– ad avviare, nel Paese, un ampio percorso-confronto al fine di definire iniziative normative volte ad introdurre, attraverso le opportune procedure, nella Carta costituzionale il principio dello sviluppo sostenibile come principio fondamentale della Repubblica. […]

Appello 2018 L’impegno delle forze politiche per portare l’Italia su un sentiero di sviluppo sostenibile 22-01-2019

Discorso del presidente dell’Asvis al Senato 

Ampio consenso delle forze politiche sulle proposte dell’Alleanza 27.02.2019

Avviata la raccolta firme per inserire lo sviluppo sostenibile in Costituzione 10.04.2019

La proposta di Più Europa per la modifica degli articoli 2 e 9 della Costituzione in materia di equità generazionale, sviluppo sostenibile e tutela dell’ambiente

Lo Studio dell’educazione civica dal prossimo anno 8.05.2019

Della perpetua volontà popolare

Di seguito pubblico la parte iniziale della Carta del Carnaro intitolata “Della perpetua volontà popolare” di Gabriele D’Annunzio e Alceste De Ambris e promulgata l’8 settembre 1920 a Fiume (corsivo mio).

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Della perpetua volontà popolare
Fiume, libero comune italico da secoli, pel voto unanime dei cittadini e per la voce
legittima del Consiglio nazionale, dichiarò liberamente la sua dedizione piena e intiera
alla madre patria, il 30 ottobre 1918.
Il suo diritto è triplice, come l’armatura impenetrabile del mito romano.
Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie, è l’estrema rocca della cultura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco. Per lei, di secolo in secolo, di vicenda in vicenda, di lotta in lotta, di passione in passione, si serbò italiano il Carnaro di Dante. Da lei s’irraggiarono e s’irraggiano gli spiriti dell’italianità per le coste e per le isole, da Volosca a Laurana, da Moschiena ad Albona, da Veglia a Lussino, da Cherso ad Arbe.
E questo è il suo diritto storico.
Fiume, come già l’originaria Tarsàtica posta contro la testata australe del Vallo
liburnico, sorge e si stende di qua dalle Giulie. È pienamente compresa entro quel
cerchio che la tradizione la storia e la scienza confermano confine sacro d’Italia.
E questo è il suo diritto terrestre.
Fiume con tenacissimo volere, eroica nel superare patimenti insidie violenze
d’ogni sorta, rivendica da due anni la libertà di scegliersi il suo destino e il suo compito,
in forza di quel giusto principio dichiarato ai popoli da taluno dei suoi stessi avversari
ingiusti.
E questo è il suo diritto umano.
Le contrastano il triplice diritto l’iniquità la cupidigia e la prepotenza straniere; a
cui non si oppone la trista Italia, che lascia disconoscere e annientare la sua propria
vittoria.
Per ciò i1 popolo della libera città di Fiume, sempre fiso al suo fato latino e
sempre inteso al compimento del suo voto legittimo, delibera di rinnovellare i suoi
ordinamenti secondo lo spirito della sua vita nuova, non limitandoli al territorio che
sotto il titolo di «Corpus separatum» era assegnato alla Corona ungarica, ma offrendoli
alla fraterna elezione di quelle comunità adriatiche le quali desiderassero di rompere gli
indugi, di scuotere l’opprimente tristezza e d’insorgere e di risorgere nel nome della
nuova Italia.
Così, nel nome della nuova Italia, il popolo di Fiume costituito in giustizia e in
libertà fa giuramento di combattere con tutte le sue forze, fino all’estremo, per
mantenere contro chiunque la contiguità della sua terra alla madre patria, assertore e
difensore perpetuo dei termini alpini segnati da Dio e da Roma.

Millennial Manifesto

Di seguito riporto The Manifesto tratto dalla parte finale del libro di Scott Beale con Abeer B. Abdalla Millennial Manifesto.

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THE MANIFESTO*

We are America’s future. We are a generation ready to take on the world. We believe our parents have failed to take into account the future or our values in today’s politics.

  • We believe in individual responsability; and as individuals we must be able to work with others for a common good.
  • We believe that community service is an important form of youth activism, but that politics, business, and faith are still necessary to improve our country.
  • We believe that every being is affected when the environment is polluted. We demand greater responsability from corporations, communities, the government, and individuals for addressing environmental problems. Environmental protection should neither be a hobby of the wealthy nor a burden of the poor; it is a global problem that we all must address.
  • Respect for human rights for all people is essential to the strength of any society, including a global one.
  • We are a generation tha sees the positive potential of internationalism – the exchange of people cultures, and economic ties that bind countries.
  • We also see the potential pitfalls of globalization if supranational companies, governments and organizations are not held accountable for maintening environmental protection, upholding labor standards, or addressing local needs.
  • Our generation has strong faith and religion is important to us. This spiritual base is at the root of much of our activism. We believe the war on drugs, the war war on crime, and current gun policies need to be re-examined and modified with new voice.
  • During our lifetimes, crime has dropped and yet the prison industrial complex has grown.
  • We demand urgent action address growing inequality. The psychological, physical, and political implications of economic inequality are not given their due attention.
  • Our most important political priority is education. As the sum total of all school age children in America, we see how some schools are failing and the cost of heigher education is rising. Education must be locally administered but federally supported.
  • We believe that racism and discrimination still exist in our country and must be ended before they tear apart the unity of our nation. Our generation will end racism.
  • Voting is important to us. Many in our generation are fighting to lower voting age. In fact, there is a new civil rights movement in our generation for youth rights. We do not believe that is acceptable to discriminate against people for any reason, including age.
  • We also value human life. A majority of us think both the death penalty and abortion should be legal and more rare.
  • We believe in liberty. The government has an important, but limited, role to play in society.
  • We are concerned about terrorism and the expanding wars overseas. The defense of our country is paramount to us, but so too are the values that make our country great. We are not a monolithic block, but we all agree that there are many things wrong with this world and we all have a responsability to stand un and fight for a better tomorrow.

*Quotes from this document come from the 2001 Century Institute’s Sagner Fellows as well as official youth statements of dozens of non-partisan conferences.

The Inclusive Development Index 2018

È uscito The Inclusive Development Index 2018 del WefDi seguito qualche estratto.

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Income inequality has risen or remained stagnant in 20 of the 29 advanced economies, and poverty has increased in 17. Most emerging economies have improved in these respects, with 84% of them registering a decline in poverty, though their absolute levels of inequality remain much higher. In both advanced and emerging economies, wealth is significantly more unequally distributed than income. This problem has improved little in recent years, with wealth inequality rising in 49 of the 103 economies. Figure 3 shows the level and evolution of income inequality over the past 10 years for selected economies.

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In Intergenerational Equity and Sustainability, the trend is discouraging, with a decline in 56 of the 74 emerging economies. This is largely driven by growing fiscal and demographic pressures and a decline in adjusted net savings, which measures the true rate of savings in an economy, after taking into account investments in human capital, depletion of natural resources, and damage caused by pollution. Most economies perform poorly on this indicator, with most emerging economies recording deterioration. Notable exceptions include Brazil, China, and India, though these are mainly driven by strong human capital investment, while reporting high levels of resource depletion.

Italy ranks 27th among the 29 advanced economies evaluated by the IDI, and is on a declining trend. This performance shows a country characterized by low Growth and Development and little Intergenerational Equity and Sustainability. In fact, Italy is aging, shifting the political weight in favor of elder cohorts. This is echoed by the difficulty to lower public debt, which stakes a claim on Italy’s future resources in return for current gains, and by a high unemployment rate especially among the younger population. At the same time, income inequality and poverty are higher than in most advanced economies, and are increasing. Driven by slow growth, the future economic prospects of Italy are less positive than of other comparable countries. While Italy has managed to build shared wealth in the past (as measured by the wealth Gini index), increasing income inequality and low growth have started to erode such prosperity, calling for action in favor of more inclusive growth policies. Italy is, however, achieving a good performance on carbon intensity and health, as it has low carbon emissions and better health conditions (73 expected healthy years) than most economies.

Neet, una generazione in panchina

È da poco uscito il sesto quaderno del Rapporto Giovani (a cura di Sara Alfieri ed Emiliano Sironi) dal titolo “Una generazione in panchina, da Neet a risorsa per il paese”. Il volume raccoglie le versioni riviste ed estese dei contributi presentati al ‘Neeting’, il primo convegno nazionale sui Neet tenutosi all’Università Cattolica il 3 e 4 novembre 2016.

Giovani e meno giovani che non studiano e non lavorano ci sono sempre stati, ma è partire dal 1999 che grazie al report Bridging the gap: New opportunies for 16-18 year olds not in education, empoloyment or training iniziano le narrazioni di questo fenomeno sui media e nelle ricerche, sopratutto inglesi.

Leggendo il libro di Rapporto Giovani mi è tornato in mente un articolo che avevo ritagliato della Repubblica nel lontano aprile 2007 dal titolo “Neets”, la generazione degli autoesclusi di Cinzia Sasso, che ripropongo. Senza dover sapere l’inglese, già solo 10 anni fa la classe politica italiana avrebbe potuto avere il sentore di quello che sarebbe accaduto anche in Italia e che le misure “una tantum e via” servono veramente a poco.

Londra – A scoprirli e battezzarli, sperduti per le strade di Londra, mescolati agli altri adolescenti nelle vie delle città dell’Inghilterra, vestiti come tutti con i pantaloni bassi, le felpe e i berrettini da baseball e incollati agli iPod, non è stata questa volta una ricerca sociologica: a individuare i “Neets” come l’ultima tribù da tenere sotto osservazione è stato uno studio della London School of Economics intitolato “The cost of esclusion”. Sono risvolti economici di quella che viene definita “una generazione tradita” il miliardo di sterline l’anno che costano i loro comportamenti, i 6-7 miliardi di euro che la loro marginalità costa alla collettività, le ragioni che hanno portato stavolta ad accendere un faro su di loro. Sui ragazzi che non vanno a scuola, che non hanno un lavoro, che quel lavoro nemmeno vogliono imparare o cercare. “Neets” significa “not in education, employment or training”. Significa insomma i marginali, gli esclusi, quelli senza arte né parte, quelli che le scelte di oggi porteranno ad essere anche gli emarginanti di domani. Significa, in altre parole, ragazzi senza futuro.
Sono una tribù numerosa, fatta di almeno un milione di giovani. Ragazzi o poco più, la loro età è compresa tra i 16 e i 24 anni, perché oggi l’adolescenza si trascina e fino a quell’età. Sarebbe ancora possibile essere studenti, oppure cominciare a fare pratica in qualche mestiere, trovare insomma una propria strada. Ma i “Neets”, una loro strada non la vogliono e non la cercano. Sono disinteressati a tutto, se non proprio cinici comunque indifferenti. Abbandonano gli studi e poi non fanno niente. Nel momento in cui si registra in Inghilterra uno dei tassi di disoccupazione più bassi, intorno al 9%, loro lo sono per almeno il doppio. Nullafacenti oggi, destinati ad essere disoccupati domani.
Un fenomeno che esiste anche in altri paesi del mondo: in Giappone, ad esempio; ed anche in Europa. Ma gli esperti britannici proprio per questo si dicono ancora più preoccupati: i “Neets” inglesi sono almeno il doppio di quanti siano i loro compagni tedeschi e francesi. Come se questa malattia di vivere avesse attecchito più qui che altrove. E così il presente incerto si trasforma in una ipoteca sul futuro: lo studio eseguito dalla London School of Economics per l’associazione Prince’s Trust, fondata dal principe Carlo proprio per aiutare i giovani a completare l’istruzione e a trovare una strada nel mondo del lavoro, prevede che le conseguenze saranno anche peggiori. Tagliati fuori dal mondo, alla ricerca di un qualche modo per campare, questi giovani facilmente finiranno nella piccola criminalità. Martina Milburn, capo del progetto voluto dal principe di Galles, dice: “Questo problema ha dei costi sociali ed economici altissimi. E le nostre previsioni sono sicuramente più ottimistiche di quel che sarà la realtà”. L’esclusione sociale costa tra i 6 e i 7 miliardi di euro l’anno, e con quella cifra sarebbe possibile ridurre di un punto le tasse; l’aumento della criminalità minorile significa per lo Stato un esborso di di 1 miliardo di sterline l’anno; e poi gli economisti conteggiano le perdite per l’educazione mancata e la futura assistenza di una classe sociale di disoccupati. Il Governo ha già aiutato 700mila giovani tra i 18 e i 24 anni, ma ha scoperto che è molto difficile tradurre il sostegno momentaneo in qualcosa di definitivo. Forse, a occuparsi dei “Neets” dovranno essere anche i sociologi: fare i conti non basta; per aiutare la generazione tradita bisogna capire perché si è perduta.

Di seguito inoltre pubblico un estratto dell’intervento introduttivo del Rapporto GiovaniRiconvertire i giovani da NEET a motore per la crescita del paese, di Alessandro Rosina, Sara Alfieri ed Emiliano Sironi.

L’acronimo NEET (Not in Education, Employment or Training) è stato coniato nel Regno Unito verso la fine del secolo scorso, ma il suo utilizzo diffuso inizia dal 2010 quando l’Unione Europea adotta il tasso di NEET come indicatore di riferimento sulla condizione delle nuove generazioni.
Rispetto all’usuale tasso di disoccupazione giovanile, nell’indicatore sono compresi tutti i giovani inattivi, non solo i disoccupati in senso stretto.
Uno dei pregi della categoria NEET è l’inclusione non solo di chi cerca attivamente lavoro (tecnicamente ‘disoccupati’, parte della ‘forza lavoro’ assieme agli occupati) ma anche degli ‘inattivi’. In quest’ultimo gruppo rientrano però sia gli ‘scoraggiati’ (ovvero chi non cerca più, ma vorrebbe lavorare) sia coloro che non sono interessati al lavoro (Alfieri -Rosina – Sironi – Marta – Marzana, 2015). Il fatto che nel tasso dei NEET rientri anche quest’ultima sottocategoria — che non solo non fa parte della forza di lavoro in senso stretto, ma nemmeno di quella potenziale — è l’aspetto più criticabile. È però utile tener presente che in chi risponde di non essere attualmente interessato ad un lavoro, rientra anche il lavoro sommerso e le persone, soprattutto donne, impegnate in attività di cura potenzialmente incluse nel mercato del lavoro in presenza di adeguati strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro.
Rispetto alla dimensione del fenomeno, i dati EUROSTAT evidenziano che l’Italia presentava livelli più elevati della media europea prima della recessione (18,8% nel 2007 contro 13,2% Ue-28); il fenomeno è aumentato maggiormente da noi durante la crisi (salito a 26,2% nel 2014 contro 15,4% Ue-28); la nostra discesa risulta più lenta con l’uscita dalla crisi (attorno al 22% nella prima metà del 2016, mentre molti paesi dell’Unione sono già tornati ai livelli precedenti la recessione). Attualmente, in termini relativi, siamo secondi solo alla Grecia, mentre, in termini assoluti, siamo il maggior produttore di NEET in Europa con oltre 2,2 milioni di under 30 che non studiano e non lavorano (ma si sale a 3,3 nella fascia 15-34 anni, dato ISTAT del 2016).
È necessario quindi agire con ancora più efficacia sui flussi e sullo stock. I flussi sono i giovani che escono dal sistema scolastico ed entrano nella condizione di NEET. Lo stock comprende coloro che permangono nella condizione di NEET diventando disoccupati di lunga durata o gli scoraggiati. Come mostrano dati comparativi internazionali (Eurofound, 2016), l’Italia si distingue non solo per l’alto numero di NEET ma anche per l’alta quota di chi lo è da oltre un anno, molti dei quali hanno smesso di cercare.
Tale condizione produce un effetto corrosivo, come evidenziano i dati dell’Osservatorio Giovani (Istituto Toniolo, 2017): al ‘non’ studio e lavoro tendono ad associarsi anche altri ‘non’ sul versante delle scelte di autonomia, di formazione di una famiglia, di partecipazione civica, di piena cittadinanza.
Il fenomeno non deve però essere letto solo in termini di costi, ma anche di mancata opportunità del ‘sistema paese’ di mettere la sua componente più preziosa e dinamica nella condizione di contribuire pienamente alla produzione di crescita presente e futura (Rosina, 2015).
La complessità e la varietà del ‘fenomeno NEET’ suggeriscono, quindi, una lettura sotto molteplici punti vista: psicologico, educativo, sociologico, economico e demografico. Proprio per questo motivo uno dei valori aggiunti del convegno è la prospettiva interdisciplinare: nell’arricchimento della conoscenza scientifica del fenomeno, nella riflessione su misura e metodo, nella valutazione dei programmi di ingaggio e attivazione. (..)

Continua a leggere o leggi l’intero quaderno sui Neet di Rapporto Giovani

La metamorfosi delle famiglie italiane: le nuove famiglie, il mosaico generazionale e i millennials

Di seguito pubblico alcuni estratti del capitolo 2 “La metamorfosi delle famiglie italiane” del Rapporto Coop 2016 Consumi e ditribuzione – Assetti, dinamiche, previsioni uscito nel dicembre 2016 ed ancora molto interessante.

La popolazione italiana si restringeRisultati immagini per rapporto coop 2016
Se si potesse rappresentare l’Italia di domani con una immagine, andrebbe illustrata come un ospedale o una grande casa di riposo. Il nostro Paese sta lentamente morendo: da più di venti anni (1994) le nascite non sono sufficienti per compensare il numero dei decessi. E la crescita della popolazione, registrata nelle statistiche, ha beneficiato negli ultimi anni soltanto del contributo dei flussi migratori (sono poco più di 5 milioni gli stranieri che vivono nel Bel Paese, con una incidenza che ha raggiunto l’8% della popolazione). A dispetto di tale contributo, ell’ultimo anno la popolazione residente in Italia (pari a 60 milioni 656 mila individui), è risultata per la prima volta in assoluto, in calo di ben 140 mila unità.
Tale flessione ha di molto anticipato un fenomeno che era già ampiamente nelle previsioni, seppure con una accelerazione attesa solo a partire dal 2020. Secondo le ultime proiezioni delle Nazioni Unite, l’arretramento della popolazione nel nostro Paese avrà dimensioni tra le più ampie di tutta Europa: entro il 2050 gli individui residenti in Italia saranno 56 milioni ed entro il 2100 meno di 50 milioni, con un saldo negativo prossimo al 20% rispetto ad oggi (nello scenario più pessimistico si scende addirittura poco sopra quota 30 milioni di persone).
In questo scenario macro stupiscono alcuni dati territoriali. A suggerire che trend demografici e condizioni economiche sono strettamente correlati, nel  2014 nelle Regioni del Mezzogiorno, da sempre considerate le più prolifiche in termini demografici, si sono registrate appena 174 mila nascite, il minimo storico dall’Unità d’Italia. Anche qui una vera e propria emergenza demografica.
Saremo in ogni caso di meno e soprattutto saremo sempre più anziani: entro il 2050 quasi un individuo su cinque avrà oltre ottant’anni ed uno su tre più di 65 anni. A ben guardare le statistiche disponibili, l’Italia di domani sarà più simile alla Liguria di oggi, la Regione più anziana di tutto lo Stivale (ove quasi il 30% della popolazione è già nel 2016 fatta da ultrasessantacinquenni). Saremo, inoltre, il Paese degli ultracentenari. Se già oggi l’Italia si colloca in quinta posizione per numero di persone con oltre 100 anni di vita (sono complessivamente 25 mila, alle spalle di Stati Uniti, Giappone, Cina e India), i “grandi longevi” aumenteranno entro il 2050 di quasi 10 volte (220 mila) ed entro il 2100 di quasi 30 volte (710 mila), con una incidenza sul totale della popolazione (1,5%) che sarà la più elevata tra le economie avanzate (0,2% a livello globale, meno dell’1% nel Vecchio Continente). Sotto questo punto di vista, l’Italia andrà somigliando sempre più alla Sardegna: in quella regione si contano, infatti, 22 centenari ogni 100 mila abitanti, la più alta concentrazione al mondo, ancor più della celebre isola di Okinawa in Giappone.
Alle dinamiche demografiche si è sommata negli ultimi anni una rinnovata tendenza degli italiani – soprattutto i più giovani – ad abbandonare l’Italia in cerca di fortuna e di nuove opportunità di lavoro. Evento non certo nuovo nella storia del nostro Paese, ma che nei tempi recenti ha sperimentato un significativo incremento: secondo i dati dell’Anagrafe della popolazione italiana residente all’estero (Aire), nel 2015 sono stati 107 mila gli emigranti italiani (+6 mila unità in confronto all’anno precedente, un record assoluto), di cui la metà di età compresa tra 20 e 40 anni. Nell’ultimo decennio, tra il 2006 ed il 2015, sono così saliti a più di 800 mila gli italiani che hanno lasciato il Paese, mentre ammontano a 4,8 milioni le persone di nazionalità italiana ufficialmente residenti all’estero. Due “expats” italiani su tre si sono diretti verso gli altri Paesi Europei (Germania e Gran Bretagna, la meta preferita tra i più giovani, oltre alla Svizzera ed alla Francia), ma anche oltre i confini del Vecchio Continente (Brasile, Stati
Uniti, con una forte crescita degli Emirati Arabi Uniti, nuova terra di conquista dei nostri connazionali). Il declino demografico in atto non è quindi solo una questione di calo della popolazione, ma ancor più di squilibrio tra generazioni, con le implicazioni sociali ed economiche che ne derivano. Infatti, il fenomeno del cosidetto “degiovanimento” (riduzione dei giovani) è ancora più marcato dell’invecchiamento (aumento degli anziani): in altri termini, l’Italia perde ogni anno più giovani di quanti anziani guadagna, rinunciando di conseguenza a
quella porzione di popolazione potenzialmente più dinamica e produttiva.

Continua a leggere o leggi l’intero Rapporto Coop 2016

Il futuro demografico del paese

Il 26 aprile è uscito il report dell’Istat IL FUTURO DEMOGRAFICO DEL PAESE
Previsioni regionali della popolazione residente al 2065. Riporto la nota introduttiva ed alcuni estratti.

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La popolazione residente attesa per l’Italia è stimata pari, secondo lo scenario mediano, a 58,6 milioni nel 2045 e a 53,7 milioni nel 2065. La perdita rispetto al 2016 (60,7 milioni) sarebbe di 2,1 milioni di residenti nel 2045 e di 7 milioni nel 2065. Tenendo conto della variabilità associata agli eventi demografici, la stima della popolazione al 2065 oscilla da un minimo di 46,1 milioni a un massimo di 61,5. La probabilità di un aumento della popolazione al 2065 è pari al 7%.

Nello scenario mediano, mentre nel Mezzogiorno il calo di popolazione si manifesterebbe lungo l’intero periodo, per il Centro-nord, superati i primi trent’anni di previsione con un bilancio demografico positivo, un progressivo declino della popolazione si compierebbe soltanto dal 2045 in avanti. La probabilità empirica che la popolazione del Centro-nord abbia nel 2065 una popolazione più ampia rispetto a oggi è pari al 31%, mentre nel Mezzogiorno è pressoché nulla.

Appare dunque evidente uno spostamento del peso della popolazione dal Mezzogiorno al Centro-nord del Paese. Secondo lo scenario mediano, nel 2065 il Centro-nord accoglierebbe il 71% di residenti contro il 66% di oggi; il Mezzogiorno invece arriverebbe ad accoglierne il 29% contro il 34% attuale.

Le future nascite non saranno sufficienti a compensare i futuri decessi. Nello scenario mediano, dopo pochi anni di previsione il saldo naturale raggiunge quota -200 mila, per poi passare la soglia -300 e -400 mila unità in meno nel medio e lungo termine.

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Dichiarazione sulle responsabilità delle generazioni presenti verso le generazioni future

Unesco – 12 Novembre 1997

(qui originale in inglese)

La Conferenza Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura riunitasi a Parigi dal 21 ottobre al 12 novembre 1997 nella sua 29a sessione,

Avendo presente la volontà dei popoli, solennemente espressa nello Statuto delle Nazioni Unite, di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” così come i valori e i principi consacrati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e da tutti gli altri strumenti del diritto internazionale che li riguardano,

Prendendo in considerazione le disposizioni del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottati il 16 dicembre 1966, così come la Convenzione sui diritti del bambino, adottata il 20 novembre 1989,

Preoccupata per la sorte delle generazioni future di fronte alle sfide cruciali del prossimo millennio,

Consapevole che, in questo stadio della storia, l’esistenza stessa dell’umanità e il suo ambiente sono minacciati,

Sottolineando che il pieno rispetto dei diritti dell’uomo e degli ideali della democrazia costituiscono una base essenziale per la protezione dei bisogni e interessi delle future generazioni,

Affermando la necessità di stabilire nuovi, equi e globali legami di partenariato e di solidarietà fra le generazioni come pure di promuovere la solidarietà intergenerazionale per la comunità dell’umanità,

Ricordando che le responsabilità delle generazioni presenti nei confronti delle generazioni future sono già state evocate nei diversi strumenti, quali la Convenzione relativa al patrimonio mondiale, culturale e naturale adottata dalla Conferenza generale dell’Unesco il 16 novembre 1972, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento del clima e la Convenzione sulla diversità biologica, adottate a Rio de Janeiro il 5 giugno 1992, la Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo adottata dalla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo il 14 giugno 1992, la Dichiarazione e il Programma di azione di Vienna adottati dalla Conferenza Mondiale sui diritti dell’uomo il 25 giugno 1993, come pure le risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla protezione del clima mondiale per le generazioni presenti e future adottate dal 1990,

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