Il mondo come io lo vedo

I primi poster che ricordo della mia camera di quando ero piccolo sono 2. Stavano vicini l’un l’altro. Uno ritraeva una scimmia vestita che mangiava una banana sopra una tazza da bagno con dietro uno sfondo giallo. Un poster tipo questo, ma con la scimmia presa di fronte.

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Il secondo poster ritraeva il faccione di Einstein tutto scapigliato che fa la linguaccia.

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Un libro di Albert Einstein che da allora mi è rimasto piacevolmente nei ricordi è Il mondo come io lo vedo e faceva parte di un’edizione della Newton & Compton editore che includeva anche Il significato della relatività.
Il libro è un’antologia di lettere ed articoli non scientifici che arrivano al 1933 e – come ci dice l’introduzione italiana – è suddiviso in 4 parti: la prima raccoglie gli scritti sulla “visione del mondo“; la seconda “Politica e e pacifismo” delinea i due temi importanti e intrecciati della sua visione politica; la terza “Germania 1933” comprende, oltre al fondamentale “manifesto” eisteiniano sulla libertà d’opinione, la breve corrispondenza che lo portò alla definitiva rottura con l’establishment scientifico tedesco rimasto fedele ad Hitler; la quarta “Gli Ebrei” illustra le sue idee sull’ebraismo e sul sionismo, compresa la possibilità di una pacifica convivenza in Palestina tra arabi ed ebrei.

E sempre nell’introduzione vi è una citazione del 1946 di Einstein sul ruolo degli intellettuali: “i lavoratori intellettuali […] non possono direttamente intervenire nella lotta politica con qualche speranza di successo. Possono riuscire, però, a diffondere idee chiare sulla situazione e sulla possibilità di un’azione coronata da successo. Essi possono contribuire, con un’opera di illuminazione, a far sì che uomini politici esperti non siano ostacolati nel loro lavoro da opinioni antiquate e a pregiudizi.”

Di seguito i primi due paragrafi del libro.

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IL SENSO DELLA VITA 
Qual è il senso della vita, o della vita organica in generale? Rispondere a questa domanda implica comunque una religione. Mi chiederete, allora, ha un senso porla? Io rispondo che l’uomo che considera la propria vita e quella delle creature consimili priva di senso non è semplicemente sventurato, ma quasi inidoneo alla vita. 

IL MONDO COME IO LO VEDO 
Quale straordinaria situazione è quella di noi mortali! Ognuno di noi è qui per un breve soggiorno; non sa per quale scopo, sebbene talvolta pensi di percepirlo. Ma dal punto di vista della vita quotidiana, senza approfondire ulteriormente, noi esistiamo per i nostri consimili – in primo luogo per quelli che ci rendono felici con i loro sorrisi e il loro benessere e, poi, per tutti quelli a noi personalmente sconosciuti ai cui destini siamo legati dal vincolo della solidarietà. Cento volte al giorno, ogni giorno, io ricordo a me stesso che la mia vita, interiore ed esteriore, dipende dal lavoro di altri uomini, viventi o morti, e che io devo sforzarmi per dare  nella stessa misura in cui ho ricevuto e continuo a ricevere. Sono fortemente attirato dalla vita semplice e spesso sono oppresso dalla sensazione di assorbire una quantità superflua del lavoro dei miei consimili. Considero le differenze di classe contrarie alla giustizia e, in caso estremo, basate sulla forza. Considero altresì che la vita semplice faccia bene a tutti, fisicamente e mentalmente. 
Non  credo  assolutamente nella libertà dell’uomo in senso filosofico. Ognuno agisce non solo  sotto  stimoli esterni, ma anche secondo necessità  interne. L’affermazione di Schopenhauer che  «un uomo può fare come vuole, ma non può volere come vuole», è stata un’ispirazione per me fin dalla giovinezza, e una continua consolazione e inesauribile sorgente di pazienza di pazienza di fronte alle difficoltà della vita, mia e degli altri. Tale sentimento mitiga pietosamente il senso di responsabilità che così facilmente diventa paralizzante e ci garantisce dal prendere noi e gli altri troppo sul serio; conduce a una visione della vita in cui l’umorismo sopra ogni altra cosa, ha il peso dovuto. 
Indagare sul senso o sullo scopo della propria esistenza, o della creazione in generale, mi è sempre parso assurdo da un punto di vista obiettivo. Eppure tutti hanno certi ideali che determinano la direzione dei loro sforzi e dei loro giudizi. In questo senso non ho mai considerato l’agiatezza e la felicità come fini in se stessi, una tale base etica la ritengo più adatta a un branco di porci. Gli ideali che hanno illuminato il mio cammino, e che via via mi hanno dato coraggio per affrontare la vita con gioia, sono stati la verità, la bontà, e la bellezza. Senza il senso di amicizia con uomini che la pensano come me, della preoccupazione per il dato obiettivo, l’eternamente irraggiungibile nel campo dell’arte e della ricerca scientifica, la vita mi sarebbe parsa vuota. Gli oggetti comuni degli sforzi umani – proprietà, successo pubblico, lusso­ – mi sono sempre sembrati spregevoli.
Il mio appassionato senso della giustizia sociale e della responsabilità sociale ha sempre contrastato curiosamente con la mia pronunciata libertà dalla necessità di un contatto diretto con altri esseri umani e comunità umane. Vado per la mia strada e non ho mai fatto parte con tutto il cuore del mio paese, della mia città, dei miei amici e neppure della mia famiglia più prossima; rispetto a tutti questi legami non ho mai perso un ostinato senso del distacco, del bisogno di solitudine un sentimento che aumenta con il passare degli anni. Sono acutamente acutamente cosciente, eppure senza rimpianti, dei limiti della possibilità di una reciproca comunicazione e di solidarietà con un consimile. Senza dubbio una persona del genere perde qualcosa in genialità e spensieratezza; d’altro canto è ampiamente indipendente nelle sue opinioni, abitudini e giudizi rispetto agli altri ed evita la tentazione di fondare il proprio equilibrio su basi così incerte.
Il mio ideale politico è la democrazia. Che ogni uomo sia rispettato come individuo e che nessuno venga idolatrato. È un’ironia del destino che io stesso sia stato fatto oggetto di eccessiva ammirazione e rispetto dai miei consimili, senza alcun pregio o difetto da parte mia. La causa di ciò potrebbe  essere il desiderio, irraggiungibile per molti, di capire quel paio di idee che le mie deboli forze hanno raggiunto attraverso incessanti fatiche. Sono assolutamente consapevole che per il successo di qualsiasi impresa complessa sia necessario che uno sia colui che pensa, che diriga e che in generale porti la responsabilità. Ma coloro che vengono guidati non devono essere obbligati, devono poter scegliere la loro guida. Un sistema autocratico di coercizione, secondo me, degenera ben presto. Perché la forza attrae uomini di bassa  moralità e io credo che sia una regola invariabile che a tiranni geniali seguano dei farabutti. Per questa ragione mi sono sempre opposto con passione a sistemi come quelli che vediamo oggi in Italia e in Russia. Quello che oggi ha portato discredito sulla forma prevalente di democrazia in Europa non deve essere attribuito all’idea democratica come tale, ma alla mancanza di stabilità da parte dei capi dei governi e al carattere impersonale del sistema elettorale. Credo che per questo aspetto gli Stati Uniti d’America abbiano trovato la giusta via. Hanno un presidente responsabile, eletto per un periodo di tempo sufficientemente lungo, con sufficiente potere per essere veramente responsabile. D’altro canto, ciò che io valuto valido nel nostro sistema politico è la maggiore previdenza per l’individuo in caso di malattia o di bisogno. La cosa veramente valida nello spettacolo della vita umana mi pare non lo Stato, ma l’individuo, creativo e sensibile, la personalità; solo lui crea ciò che è nobile e sublime, mentre il branco come tale resta sciocco nella mente e nei sentimenti.
Questa immagine mi fa pensare  al frutto peggiore della  natura del branco, il sistema militare, che io aborrisco. Che un uomo possa trarre piacere dal marciare in formazione sulla scia di una banda basta a farmelo disprezzare. È stato fornito del suo grande cervello solo per sbaglio; gli sarebbe  bastata la spina dorsale. Questo bubbone della civilizzazione dovrebbe essere estirpato al più presto. L’eroismo comandato, la violenza senza senso e tutto quel pestilenziale nonsenso che va sotto il nome di patriottismo ­quanto lo detesto! La guerra mi pare qualcosa di meschino e spregevole: preferirei essere fatto a pezzi che partecipare a una faccenda così abominevole. Tuttavia, malgrado tutto, ho un’altra opinione della razza umana, al punto da credere che questo spauracchio della guerra sarebbe scomparso tanto tempo fa, se il sano senso dei popoli non fosse stato sistematicamente corrotto da interessi commerciali e politici che agivano attraverso le scuole e la stampa. 
La cosa più lontana dalla nostra esperienza è ciò che è misterioso. È l’emozione fondamentale accanto alla culla della vera arte e della vera scienza. Chi non la conosce e non è più in grado di meravigliarsi, e non prova più stupore, come morto, una candela spenta da un soffio. Fu l’esperienza del mistero seppure mista alla paura che generò la religione. Sapere dell’esistenza di qualcosa che non possiamo penetrare, sapere della manifestazione della ragione più profonda e della più radiosa bellezza, accessibili alla nostra ragione solo nelle loro forme più elementari questo sapere e questa emozione costituiscono la vera attitudine religiosa; in questo senso, e solo in questo, sono uomo profondamente religioso. Non posso concepire un Dio che premia e punisce le sue creature, o che possiede una volontà del tipo che noi riconosciamo in noi stessi. Un individuo che sopravvivesse alla propria morte fisica è totalmente lontano dalla mia comprensione, né vorrei che fosse altrimenti; tali nozioni valgono per le paure o per l’assurdo egoismo di anime deboli. A me basta il mistero dell’eternità della vita e la vaga idea della meravigliosa struttura della realtà, insieme allo sforzo individuale per comprendere un  frammento, anche il più  piccino, della ragione che si manifesta nella natura.


I see the world, feel the chill
Which way to go, windowsill
I see the worl’s on a rocking horse of time
I see the verse in the rain (..)

Noi non ci saremo

Noi non ci saremo. Noi non ci saremo ai prossimi mondiali di calcio ed a chissà quali altri eventi della Storia. Come Italia e come italiani.

(..) E il vento d’estate che viene dal mare
intonerà un canto fra mille rovine,
fra le macerie delle città, fra case e palazzi che lento il tempo sgretolerà,
fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo.
E dai boschi e dal mare ritorna la vita,
e ancora la terra sarà popolata;
fra notti e giorni il sole farà le mille stagioni e ancora il mondo percorrerà
gli spazi di sempre per mille secoli almeno,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo,
ma noi non ci saremo…

Non ci saremo perché semplicemente non ci saremo.

Non ci sono più i numeri per invertire la tendenza demografica, sociale ed economica declinante dell’Italia. Andiamo verso l’estinzione. È dalla fine della prima Repubblica che l’Italia sta lentamente morendo. Piano piano si stanno vedendo i risultati di totale mancanze di politiche a medio-lungo termine. Il calcio perfetto specchio dell’Italia. Una classe dirigente nella politica e nell’economia vecchia, totalmente incapace di creare alcun valore aggiunto e maggior benessere per le generazioni a venire, anzi..
E se per il calcio probabilmente si è toccato il punto limite, purtroppo per la società italiana questo toccare il fondo ancora dovrà arrivare. E basta leggere persone intelligenti come ad esempio Bagnai o Barnard per capire la fine che faremo.

A tal proposito, oggi mi vengono in mente alcune parole di due “vecchi” che ho ammirato e che hanno fatto della ricerca e della divulgazione la loro missione di vita: Piero Angela e Tiziano Terzani.

In un’intervista ripresa da dagospia Piero Angela alla domanda di cosa auspicasse per i giovani ha affermato: «La capacità di informarsi correttamente, con strumenti affidabili. I giovani avranno davanti un futuro non facile, perché tutto cambia troppo velocemente. E poi siamo destinati a fare i conti con un mondo diverso, fatto di vecchi, immigrati e pochi bambini. Il dramma della longevità è che va di pari passo con la denatalità, con una spesa sociale per le famiglie troppo bassa».

Nel 2008 con il suo libro Perché dobbiamo fare più figli? ci metteva in guardia sul problema demografico in Italia:

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Prendete un mazzo di carte da gioco e posatelo sul tavolo. Chiedete ad un amico di “tagliare” il mazzo di dividerlo in due. Le 52 carte, una volta dimezzate, si ridurranno a 26.
Fate tagliare una seconda volta: ne rimarranno 13. Dopo un terzo taglio le carte si ridurranno a 6 o 7.
In soli tre tagli, cioè, il mazzo è passato da 52 a 6 o 7 carte.
Per le nuove generazioni italiane sta succedendo qualcosa del genere. A ogni ricambio generazionale i neonati si stanno quasi dimezzando. 
In tutti questi anni si è parlato soprattutto della sovrappopolazione nel mondo e dei rischi connessi. Ed è vero. È una grave distorsione che pagheremo cara. Ma questa esplosione demografica ha avuto luogo nelle regioni più povere del pianeta: quelle che faranno salire a oltre 9 miliardi la popolazione mondiale nel 2050.
Accanto questo squilibrio ve ne è un altro, di segno opposto, che si sta verificando nei paesi sviluppati, e in particolare l’Italia: l’eccesso di denatalità. L’Italia è fra i paesi al mondo dove nascono meno figli. E questo sta portando a conseguenze traumatiche. Perché in questo caso non si tratta più di una sana ed auspicata riduzione della popolazione (che comunque in Italia sta avvenendo), ma anche qui di una distorsione pericolosa soprattutto per la velocità con cui si verifica.

Nell’ultimo capitolo di Un altro giro di giostra Terzani dopo averci fatto girovagare per il mondo alla ricerca di sé e della miglior guarigione per il proprio cancro (che lo porterà alla morte nel 2004) ci rende partecipe di alcune considerazioni sulla fine del suo viaggio.
Sono riflessioni che possono valere per qualsiasi cosa e persona. Una vita, una famiglia, una nazione, una partita di calcio. Un altro giro, un’altra fine e un altro inizio.

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[…] Alla fine tutto va messo alla prova: le idee, i propositi, quel che si crede di aver capito e i progressi che si pensa di aver fatto. E il banco di prova è uno solo: la propria vita. A che serve essere stati seduti sui tallone per ore e ore a meditare se non si è con questo diventati migliori, un po’ più distaccati dalle cose del mondo, dai desideri dei sensi, dai bisogni del corpo? A che vale la pena predicare la non violenza se si continua a profittare del violento sistema dell’economia di mercato? A che serve aver riflettuto sulla vita e sulla morte se poi, dinanzi a una situazione drammatica, non si fa quel che si è detto tante volte bisognerebbe fare e si finisce invece per ricadere nel vecchio, condizionato modo di agire? […]
Un lieto fine questo?
E che cos’è lieto, in un fine? E perché tutte le storie ne debbono avere uno? E quale sarebbe un lieto fine per la storia viaggio che ho appena raccontato? “…e visse felice e contento”? Ma così finiscono le favole che sono fuori dal tempo, non le storie della vita che il tempo comunque consuma. E poi chi giudica ciò che è lieto e ciò che non lo è?
A conti fatti anche tutto il malanno di cui ho scritto è stato un bene o un male? È stato, e questo è l’importante. È stato, e con questo mi ha aiutato, perché senza quel malanno non avrei mai fatto il viaggio che ho fatto, non mi sarei mai posto le domande che, almeno per me, contavano.
Questa non è un’apologia del male o della sofferenza – e a me ne è toccata ancora poca. È un invito a guardare il mondo da un diverso punto di vista e a non pensare solo in termini di ciò che ci piace o meno.
E poi: se la vita fosse tutto un letto di rose sarebbe una benedizione o una condanna? Forse una condanna, perché se uno vive senza mai chiedersi perché vive, spreca una grande occasione. E solo il dolore spinge a porsi
la domanda.
Nascere uomini, con tutto quel che comporta, è forse un privilegio. Secondo i Purana, le antiche storie popolari indiane, persino le creature celesti a cui tutto era dato e che conoscevano solo il bello, il bene, la gioia, dovevano a un certo punto nascere uomini, appunto perché anche loro potessero scoprire il contrario di tutto questo e capire il significato della vita. E la prova non può essere che su sé stessi. Bisogna personalmente fare l’esperienza per capire. Altrimenti si resta solo alle parole che di per sé non hanno alcun valore, non fanno né bene né male. 
[…]


28.11.2017 Quei centomila italiani mai nati negli anni della crisi economica

22.11.2017 Verso la metà del secolo. Un’Italia più piccola?

Il Ribelle

La parola Ribelle deriva dal latino REBELLEM, da RE di nuovo e BELLUM guerra: propr. ‘che ricomincia la guerra’, e dicevasi di ‘coloro che dopo essersi arresi, si sollevavano in armi contro il vincitore’, applicato per est. al cittadino ‘che si solleva contro un’autorità legittima del suo proprio paese’; fig. ‘ricalcitrante al vero e al giusto’. Dall’Etimologico Zanichelli: agg. ‘che insorge contro l’autorità costituita, la legge e sim.‘, est. ‘che rifiuta di ubbidire’, est. ‘indocile’, s. m. e f. ‘ chi si ribella in armi, o si oppone violentemente a qc. o q.c.’.

Nel libro Trattato del Ribelle di Ernst Jünger il traduttore in una nota ci fa presente come il termine tedesco Waldgänger – che letteralmente significa ‘chi passa al bosco, si ritrae nella foresta, si dà alla macchia’ (da Waldgang) – non avendo un buon equivalente in italiano sia stato tradotto con la parola Ribelle. Il termine tedesco risale ad un’usanza dell’antica Islanda, dove nell’Alto Medioevo i proscritti, i fuorilegge, i ribelli insomma, si ritiravano in luoghi deserti  e selvaggi nei quali conducevano un’esistenza libera ma quanto mai rischiosa.

Di seguito, un estratto su quello che intende Ernst Jünger con il termine Ribelle o colui che passa al bosco.

[…] Chiamiamo invece Ribelle chi nel corso degli eventi si è trovato isolato, senza patria, per vedersi infine consegnato all’annientamento. ma questo potrebbe essere il destino di molti, forse di tutti – perciò dobbiamo aggiungere qualcosa alla definizione: il Ribelle è deciso a opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata. Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi all’automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo. […]

È un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto  stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano. Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non soltanto la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali hanno conservato la loro forza, esercitino un’autorità assoluta. […]

Il Ribelle, dunque, deve possedere due qualità. Non si lascia imporre la legge da nessuna forma di potere superiore né con i mezzi della propaganda, né con la forza. Il Ribelle inoltre è molto determinato a difendersi non soltanto usando tecniche e idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento. A queste condizioni potrà affrontare il rischio del passaggio al bosco. […]

I nemici sono ormai talmente simili tra loro che non è difficile individuare in essi diversi travestimenti di uno stesso potere. Non si tratta di controllare il fenomeno in questo o quel punto, bensì di mettere sotto controllo il tempo. Ciò richiede sovranità. E la sovranità oggi non si riscontra più nelle grandi risoluzioni, ma esclusivamente nell’uomo singolo che ha abiurato in sé la paura. Le incredibili procedure ideate soltanto contro di lui sono destinate, in ultima istanza, al suo stesso trionfo. Quando l’uomo capisce questo, è libero. E le dittature crollano miseramente. Ritroviamo qui le riserve ancora pressoché intatte del nostro tempo, e non soltanto del nostro. Questa libertà costituisce il tema della storia in genere, nonché il suo limite: da un lato rispetto al regno dei demoni, dall’altro rispetto al puro accadere zoologico. Era già tutto contenuto nel mito e nelle religioni, modelli che si ripetono senza posa: Giganti e Titani si ripresentano di continuo, e sempre con lo stesso immenso potere. L’uomo libero li abbatte: non necessariamente dev’essere un principi o Eracle in persona. È successo che bastasse la pietra scagliata dalla fionda di un pastore, il vessillo innalzato di una vergine, il lancio di una balestra. […]

Dal Riepilogo:

[…] 16. Il passaggio al bosco è un atto di libertà nella catastrofe; 17. esso è indipendente dai paraventi tecnico-politici e dai relativi rappresentanti. 18. Non contrasta l’evoluzione, 19. ma la integra con la libertà che si accompagna alla decisione del singolo. 20. Qui l’uomo incontra sé stesso nella propria sostanza indivisa e indistruttibile. 21. Un incontro che sconfigge la paura della morte. 22. Qui anche le Chiese possono offrire soltanto assistenza, 23. poiché l’uomo è solo di fronte alla sua decisione. 24. Il teologo può aiutarlo ad acquistare consapevolezza della sua condizione 25. ma non ad uscirne.
26. Il Ribelle varca con le proprie forze il meridiano zero. 27. Nell’ambito delle terapie mediche, 28. del diritto 29. e dell’uso delle armi la decisione sovrana spetta solamente a lui. 30. Anche in campo morale le sue azioni non si conformano ad alcuna dottrina, 31. ed egli si riserva di approvare le leggi. Non partecipa al culto del crimine. 32. Decide in merito a ciò che intende considerare sua proprietà e a come difenderla. 33. È consapevole delle profondità inviolabili 34. da cui sgorga anche il Verbo che incessantemente compie l’opera del mondo. È lì l’esigenza dello hic et nunc.