Sulle disuguaglianze

È uscito da poco il report INEQUALITY AND PROSPERITY IN THE INDUSTRIALIZED WORLD: addressing a growing challenge a cura di Citi GPS e Oxford Martin School che fa il punto sulla situazione delle disuguaglianze nelle economie industriali.

#stefanobosso ph., Al Khawr, 2017


Cosa sono le disuguaglianze? Come si misurano? Con quali le conseguenze?

Il Dizionario di Sociologia di Luciano Gallino dà della disuguaglianza sociale la seguente definizione: Molte differenze oggettive esistenti tra i membri di una collettività, specie in campo economico e giuridico, o tra un insieme di individui qualsiasi e i loro gruppi di riferimento tendono a essere socialmente definite come disuguaglianze, e a causare azioni e reazioni volte a eliminarle, allorché si verificano congiuntamente le seguenti condizioni: 1) dette differenze si esprimono sotto forma di possesso di quantità più o meno grandi di risorse socialmente rilevanti, ovvero in una maggiore o minore possibilità di accesso a uno status superiore; 2) sono considerate il prodotto di meccanismi di selezione sociale intesi a mantenere un dato ordine sociale, più che del merito o delle doti individuali, ovvero – a seconda del lato delle differenze cui ci si riferisce – dell’assenza di merito o di doti appropriate; 3) appaiono, almeno in linea di principio, superabili mediante azioni dirette a modificare i meccanismi di selezione, o a eliminarli, trasformando più o meno radicalmente l’ordine sociale a cui si ritengono connaturati; 4) sono interpretate dalla coscienza sociale dei soggetti più sfavorevoli, o dai loro portavoce intellettuali o politici, come una ingiustizia.
Le principali disuguaglianze osservabili in una società, connesse alle sue fondamentali strutture economiche e politiche, costituiscono un sistema di stratificazione sociale. A sua volta una classe sociale rappresenta una causa di disuguaglianza sociale se il termine è usato nell’accezione realista o organica; mentre una manifestazione delle disuguaglianze esistenti se si usa il termine secondo l’accezione nominalistica o ordinale.

Ampissima è la letteratura sul tema delle disuguaglianze. Per farsi un’idea, i primi libri che mi vengono in mente sono: La misura dell’anima di R. Wilkinson e K. Pickett, Disuguaglianze di M Franzini e M. Pianta, La grande frattura di J. Stiglitz, od anche Quanto è abbastanza di M. e E. Skidelsky.

Economia. Istruzioni per l’uso

Ma è nel libro di Ha-Joon Chang Economia. Istruzioni per l’uso che ho trovato una delle migliori spiegazioni. Il libro è una sorta di “Economics for dummies” e cerca di illustrare in modo chiaro ed intelligente i principali concetti per capire l’economia di oggi, con l’aiuto di molti pratici riferimenti e dati reali. Come sottolinea l’autore nell’introduzione: “La scienza economica è riuscita particolarmente bene a tenere a distanza il grande pubblico. La gente è sempre pronta a far sentire la propria opinione su qualunque cosa, pur non avendo le competenze necessarie: cambiamento climatico, matrimoni gay, guerra in Iraq, centrali nucleari.. Ma quando si parla di questioni economiche, molti non mostrano di avere alcun interesse, figuriamoci un’opinione chiara in merito. […] Se in economia non esiste un’unica risposta esatta, allora non possiamo lasciare tutto in mano agli esperti. In altre parole, ogni cittadino responsabile deve imparare un po’ di economia, il che non significa procurarsi un librone di testo e assimilare una prospettiva economica particolare. Ciò che serve  studiare l’economia per essere consapevoli che esistono diversi tipi di tesi economiche e sviluppare lo spirito critico per valutare quale posizione sia più sensata in una determinata situazione e ala luce di determinati valori morali e obiettivi politici. […]”

Di seguito riporto un paio di paragrafi estratti dal capitolo “La capra di Boris dovrebbe crepare”.

Troppa disuguaglianza fa male all’economia: instabilità e mobilità ridotta

Non credo che siano in molti ad auspicare un egualitarismo estremo come quelli della Cina maoista o della Cambogia di Pol Pot. Tuttavia, molti sostengono che una disuguaglianza troppo accentuata sia un fattore negativo non solo dal punto di vista etico, ma anche in termini economici.
altri economisti hanno sottolineato che un altro livello di disparità riduce la coesione sociale, favorisce l’instabilità politica e, di conseguenza, frena gli investimenti. L’instabilità politica rende incerto il futuro e, di riflesso, la redditività degli investimenti, che per definizione si riscontra nel futuro. Minori investimenti significano minore crescita.
La disuguaglianza elevata accentua anche l’instabilità economica, che nuoce alla crescita. Quando un’altra percentuale del reddito nazionale è riservata alle persone più ricche, può darsi che il tasso di investimenti cresca, ma questo significa anche che l’economia sarà più soggetta all’incertezza e all’instabilità, come sottolineava Keynes. Molti economisti hanno anche evidenziato come la crescente disuguaglianza abbia svolto un ruolo di rilievo nella crisi finanziaria globale del 2008, soprattutto negli Stati Uniti, dove i redditi più alti sono lievitati, mentre i salari reali erano fermi dagli anni settanta. Per stare al passo con i nuovi standard di consumo, la gente comune si è indebitata e l’aumento del debito delle famiglie (in percentuale sul Pil) ha reso l’economia più vulnerabile agli shock.
Per altri, la disuguaglianza riduce la crescita economica perché limita la mobilità sociale. L’istruzione costosa che solo un’esigua minoranza può permettersi, ed è necessaria per ottenere posizione ben pagate, i legami personali all’interno di un gruppo ristretto e privilegiato (ciò che il sociologo Pierre Bourdieu chiamava “capitale sociale”), e persino la “sottocultura” delle élite (per esempio, modi di esprimersi e atteggiamenti che si acquisiscono nelle scuole più esclusive) possono fungere da ostacoli alla mobilità sociale.
Una mobilità ridotta significa che le persone capaci provenienti da ambienti poveri sono escluse dalle professioni più remunerative e sprecano il loro talento, provocando perdite sia a livello personale sia per l’intera società. Significa anche che tra coloro che occupano i posti più prestigiosi non c’è il meglio che la società potrebbe offrire se la mobilità sociale fosse maggiore. Se perdurano per generazioni, questi ostacoli spingono i giovani delle classi meno privilegiate a smettere persino di cercare posti di lavoro migliori. Ciò conduce a una sorta di riproduzione “endogamica” delle élite sul piano culturale e intellettuale. Se è vero che i grandi cambiamenti richiedono idee nuove e condotte anticonformiste, una società con un’élite autoreferenziale rischia di non riuscire a produrre innovazione. Ne segue un calo del dinamismo economico.

[…]

Note conclusive: perché troppa povertà e disuguaglianza non sono fuori dal nostro controllo

La povertà e la disuguaglianza sono diffuse in modo allarmante. Una persona su cinque nel mondo, vive ancora in condizioni di povertà assoluta, e persino in alcuni paesi avanzati, come Stati Uniti e Giappone, una su sei vive in povertà (relativa). Con l’eccezione di una manciata di paesi europei, la disuguaglianza di reddito assume proporzioni tra il grave e lo sconvolgente.
Fin troppe persone accettano tali condizioni come l’inevitabile effetto delle innate differenze di capacità tra gli individui. Ci viene chiesto di convivere con queste realtà nello stesso modo in cui si convive con terremoti e vulcani. Ma, come evidenzia questo capitolo, si tratta di sistuazioni soggette all’intervento umano.
Dato il considerevole livello della disuguaglianza in molti paese indigenti, la povertà assoluta (al pari di quella relativa) può essere ridotta anche senza un aumento della produzione, ma con un’appropriata ridistribuzione del reddito. Nel lungo periodo, però, per limitarla significativamente è necessario lo sviluppo economico, come ha dimostrato la Cina negli ultimi tempi.
I paese avanzati hanno praticamente sconfitto la povertà assoluta, ma alcuni presentano alte percentuali di povertà relativa e disuguaglianza. Il fatto che i tassi di povertà (relativa, 5-20 per cento) e i coefficienti di Gini (0,2-0,5) varino in modo significativo tra questi paesi suggerisce che in quelli con maggior povertà e disuguaglianza, come gli Stati Uniti, è possible ridurre notevolmente questi fenomeni con un intervento dello stato.
Chi si ritrova in miseria, inoltre, dipende molto dagli interventi pubblici. Per cercare di uscirne con le proprie forze, deve poter contare su condizioni più eque per i bambini (migliori misure di welfare e istruzione), maggiori possibilità di accesso al lavoro (abbattimento delle discriminazioni e delle “caste” ai livelli più alti) e lotta alla manipolazione dei mercati da parte di ricchi e potenti.
Nella Corea preindustriale si diceva che “persino il re più potente non può fare nulla contro la povertà”. Se mai questa affermazione è stata vera, oggi non lo è più. Il mondo produce a sufficienza per eliminare la povertà assoluta. Anche senza una redistribuzione globale del reddito, qualsiasi paese, tranne i più poveri, produce a sufficienza per sconfiggerla. La disuguaglianza non può essere eliminata del tutto, ma con opportune politiche potremmo vivere in società eque, come molti norvegesi, finlandesi, svedesi e danesi potrebbero raccontarvi.

Un paio di vecchi articoli con Ha-Joon Chang:
Economics is too important to leave to the experts
Five minutes with Ha-Joon Chang: “Members of the general public have the duty to educate themselves in economics”

Tornando al report Inequality and Prosperity in the Industrialized World, di seguito riporto alcuni estratti:

[…] Against this background, our research program will focus on identifying the impacts
of inequality on economic growth potential, social cohesion, and the political
process. On the back of this, we shall collaboratively suggest a coherent set of
responses that would address rising inequality in a manner that promotes inclusive
growth.

Continua a leggere l’estratto o leggi l’intero report

La mia esistenza si era sviluppata o solo accumulata?

È uscito qualche giorno fa il film L’altra metà della storia, trasposizione cinematografica del libro Il senso di una fine di Julian Barnes, uno dei migliori romanzi che abbia letto negli ultimi anni.
Anche se la trama del film è semplificata ed addolcita rispetto a quella del libro, non è affatto male e vale la pena vederlo.

La storia è relativamente semplice. Immaginatevi giovani. Te (Tony), la tua ragazza Veronica e il tuo migliore amico Adrian. Le cose però non vanno come desidereresti, ti lasci, e poi la tua ex ragazza si mette con il tuo migliore amico. Non la prendi bene. Preso da un momento di rabbia scrivi ad entrambi una lettera molto cattiva: “[…] beh, quel che è certo è che siete fatti l’una per l’altra, perciò vi auguro tanta felicità. Spero che invischiate tanto da rendere il reciproco danno permanente. Spero che possiate rimpiangere il momento in cui vi ho fatto incontrare. E spero che quando vi lascerete – perché è inevitabile che succeda, vi do tempo sei mesi, che la vostra comune presunzione trasformerà in un anno, col che vi incasinerete anche di più, ve lo garantisco – dobbiate affrontare un’intera vita di amarezza che avvelenerà tutti i vostri rapporti successivi. Una parte di me si augura anche che facciate un figlio, perché credo ciecamente nella vendetta del tempo, già, per la generazione prossima e quella a seguire. […].
Personalmente, [Veronica] non posso nuocerti, ora come ora, ma ci penserà il tempo. Sarà il tempo ad avere l’ultima parola. È sempre così.
Ricevete pertanto i miei più sentiti auguri, e possa una pioggia acida cadere copiosa sulle vostre sante e indissolubili teste”.

Dopo poco tempo Adrian si suicida. Te vai avanti con la tua vita e non ci pensi più. Ti sposi, lavori al ministero, fai una figlia, divorzi, rimani in buoni rapporti con la tua ex moglie, vai in pensione, hai i tuoi hobby. Una vita come tante altre.

Ad un certo punto però ricevi un eredità. È da parte della mamma (appena scomparsa) di Veronica. Ti lascia un diario e dei soldi, e ti dice che in fondo gli ultimi mesi di vita di Adrian erano stati felici. Il diario però non c’è. Sembra lo abbia preso Veronica. Poi però lei ti dice che lo ha bruciato.
E qui iniziano i tuoi dubbi e le tue domande, che ti porteranno a cercare nel passato i pezzi mancanti della storia ed a scoprire il “senso di una fine” solo alla fine, in una sorta di amara e mesta epifania.

Leggendo il libro avevo riflettuto su come a volte i nostri pensieri, le nostre parole ed azioni si possano rivelare dei macigni inimmaginabili anche a distanza di tempo. Meglio allora stare sempre attenti a come usarli, soprattutto con le persone che abbiamo amato.

Come ci ricorda il libro, la nostra vita è solo parte di una storia ancora più grande e di cui sappiamo solo una piccola parte. Una storia diversa per ognuno che si incontra, e che vive fintanto che qualcuno vivente se la ricorda.
Per Adrian la storia era “quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione”, e così nella lettera a beneficio del coroner dava conto delle sue ragioni per essersi suicidato: “la vita è un dono elargito non a seguito di una qualsivoglia richiesta; l’essere pensante ha il dover filosofico di esaminare sia la natura dell’esistenza, sia le condizioni in cui essa si manifesta; e, infine, se tale persona decide di rinunciare al suddetto dono elargito senza essere stato richiesto, è suo dovere umano ed etico agire di conseguenza”.

Di seguito riporto un piccolo estratto del libro dove Tony si pone una domanda a cui ognuno dovrebbe dare risposta.

[…] Mi sono ritrovato a paragonare la mia vita a quella di Adrian. Alla sua capacità di guardarsi dentro, di assumere posizioni etiche e di agire di conseguenza; al coraggio mentale e fisico del suicidio. “Si è tolto la vita”, si dice; ma Adrian se n’era fatto carico, assumendone il comando e prendendola nelle sue mani per poi lasciarla andare. Quanti tra noi – noi che restiamo – possono dire di aver fatto altrettanto? Procediamo a casaccio, prediamo la vita come viene, ci costruiamo a poco a poco una riserva di ricordi. Ecco il problema dell’accumulo, e non nel senso inteso da Adrian, bensì nel semplice significato di vita che si aggiunge a vita. E, come ricorda il poeta, c’è differenza tra addizione e crescita.
La mia esistenza si era sviluppata, o solo accumulata? Era questa la domanda che il brano di Adrian mi aveva fatto scattare dentro. Di addizioni – e di sottrazioni – ce n’erano state, ma che dire delle moltiplicazioni? E questo mi procurò un senso di disagio, di irrequietezza. […]

Una generazione “a galla”

Dall’Australia, un nuovo report uscito nel mese di settembre ci racconta come anche lì i giovani non se la passino proprio bene: il tradizionale percorso verso l’età adulta sembra non esistere più e farsi una carriera, comprarsi una casa, sposarsi e poi finalmente “sistemarsi” per molti non sembrano più essere degli obiettivi realistici.

#stefanobosso ph., West-Flanders skies and fields and feet, 2016

#stefanobosso ph., West-Flanders skies and fields and feet, 2016


Il report in questione è Gen Y on Gen Y , (parte del programma Life Patterns program, dell’Università di Melbourne) che ha tracciato la vita di circa 515 membri della Generazione Y, ora dell’età di 28-29, da quando erano undicenni (nel 2005). In questo report viene documentata la transizione di questi giovani verso l’età adulta grazie a delle interviste in focus group, nelle quali sono state poste una serie di domande su svariati temi tra cui: l’educazione e il lavoro, le loro relazioni, il loro benessere, le loro speranze, i loro piani per il futuro, le strategie da intraprendere per migliorare la propria vita. 

Quello che emerge è la storia di una generazione stretched and stressed” che cerca in qualche modo di rimanere a galla. Una generazione che, nello sforzo di assicurarsi delle entrate per lo più modeste, si possa permettere un minimo di sicurezza lavorativa ed abitativa, un equilibrio tra lavoro e vita privata, delle relazioni sociali positive e una salute mentale e fisica.

Lì, come da noi, il problema più grande è determinato dalla precarietà lavorativa, fatta di contratti a termine e di lavori ad intermittenza. Questa precarietà, sempre più esistenziale e cronica, sta erodendo la capacità di un’intera generazione di “andare oltre” con la propria vita e di entrare definitivamente nella fase adulta, con possibilità di progetti di vita a medio-lungo termine. Al momento infatti, preoccupazioni e stress maggiori sono causati dal trovare case a prezzi abbordabili e dal ripagare i debiti fatti durante gli anni di studio

Come ci dice il report, la generazione Y sta focalizzando le proprie energie su strategie volte alla gestione del cambiamento degli obiettivi di vita. C’è un emergente consapevolezza che il futuro (seppur modesto) da loro immaginato si stia “allontanando nel tempo” e che non sia più alla loro portata. Obiettivi base – avere un lavoro sicuro che permetta di guadagnare il necessario per vivere una vita dignitosa, comprare una casa e impegnarsi in una relazione stabili – e che erano dati per scontati per le precedenti generazioni oggi sembrano più difficili da raggiungere. Non si parla neanche più di mutuo o pensione futura, ma di sopravvivenza base. Ad esempio, uno degli intervistati dice: I’ve only just started full-time work again this year . . . I have no aspiration to really get a house any time soon, because I know that it’s so unattainable at this point.” Un altro dice: “I feel like a lot of us – looking at my friends and stuff – and even my brothers and sisters, we’re all sort of the same age – but all of us are just kind of – we’re just staying afloat.

L’effetto cumulativo di queste condizioni ha fatto sì che la generazione Y abbia perso un percorso di vita sicuro e che sia in balia di forze economiche sulle quali nessuno ha più controllo.
Nonostante questa generazione abbia fatto tutte le cose “giuste” (investire nell’educazione ed essere umili e flessibili riguardo le condizioni lavorative), è stata schiacciata dalle riforme lavorative, dalle politiche abitative e dai processi globali che ne hanno minato la valenza e la legittimità per andare avanti.

Per molti, quindi “rimanere a galla” è diventato il più ragionevole degli obiettivi di vita.

Similmente a quella italiana, questa generazione di giovani australiani vive con un senso pervasivo di stress e pressioni, per far fronte all’imprevedibilità futura delle entrate economiche personali, e per cercare di mantenere quanto più possibile gli standard di vita che la generazione dei genitori aveva raggiunto e i cui figli avevano beneficiato.
Rimane un forte senso di disgiunzione tra le “promesse” di gratificazioni che sarebbero dovute venire dopo gli investimenti negli studi e l’effettiva realtà lavorativa. 
Fondamentale risulta il supporto, i consigli e le conferme dati da famiglia, partner ed amici per limitare quanto più lo stress e per affrontare i momenti più difficili.

Una buona sintesi del report è data nell’articolo A generation dislodged: why things are tough for Gen Y  di J. Wyn e H. Cahill dell’Università di Melbourne.

Guardare al nostro Risorgimento

Un libretto a cui sono molto affezionato e che dovrebbe essere letto e studiato ogni anno a scuola è Dei doveri dell’uomo (1860) di Giuseppe Mazzini (1805-1872). Questo testo rappresenta il testamento spirituale e morale di uno dei principali ispiratori del Risorgimento italiano, nonché fondatore della sfortunata Repubblica Romana (1849).

 #STEFANOBOSSO PH..  TROLLSTIGEN, NORVEGIA, 2015#stefanobosso ph..  Trollstigen, Norvegia, 2015


Nell’introduzione Mazzini scrive “[..] Non avete diritti di cittadini, né partecipazione alcuna d’elezione o di voto alle leggi che regolano i vostri atti e la vostra vita: come potreste avere coscienza di cittadini e zelo per lo Stato e affetto sincero alle leggi? La giustizia è inegualmente distribuita fra voi e l’altre classi: d’onde imparereste a simpatizzare colla società? Voi dunque avete bisogno che cangino le vostre condizioni materiali perché possiate svilupparvi moralmente: avete bisogno di lavorar meno per poter consacrare alcune ore della vostra giornata al progresso dell’anima vostra: avete bisogno di una retribuzione di lavoro che vi ponga in grado di accumulare risparmi, di acquietarvi l’animo sull’avvenire, di purificarvi sopra tutto d’ogni sentimento di riazione, d’ogni impulso di vendetta, d’ogni pensiero d’ingiustizia verso che vi fu ingiusto. Dovete dunque cercare, e otterrete questo mutamento; ma dovete cercarlo come mezzo, non come fine: cercarlo per senso di dovere, non unicamente di diritto: cercarlo per farvi migliori, non unicamente per farvi materialmente felici. Dove no, quale differenza sarebbe tra voi e i vostri tiranni? Essi lo sono precisamente, perché non guardano che al ben essere, alla voluttà, alla potenza.
Farvi migliori: questo ha da essere lo scopo della vostra vita. [..]”
Ho ripreso in mano questo testo perché un bellissimo speciale “Pensiero e azione” della rivista Buddismo e Società (n.184 di settembre/ottobre 2017) mi ha fatto tornare in mente il concetto di “religione civile“.
Tra i vari articoli proposti sull’argomento, riporto il Discorso di Daisaku IkedaGuardate al vostro Risorgimento!” dell’11 agosto 2000, nel quale si parla proprio di Mazzini.

“Un saluto di benvenuto ai nostri compagni di fede italiani arrivati da lontano nonostante il caldo estivo.

Desidero dedicarvi come ricordo di questa giornata una breve poesia:
Com’è luminoso
il sorriso
dei miei amici
italiani.

La Soka Gakkai italiana ha avuto un magnifico sviluppo divenendo esempio per tutta l’Europa. Voi italiani siete l’alba dell’Europa!
Mi auguro che lavoriate insieme in unità e amicizia. Lucio Anneo Seneca, filosofo dell’antica Roma, disse: «Nulla tuttavia delizierà tanto l’animo quanto un’amicizia fedele e dolce».1 Nel mondo degli esseri umani niente è più bello dell’amicizia; Buddismo vuol dire costruire una “città eterna dell’amicizia”. Vi prego di allargare la rete di solidarietà dell’amicizia e della fiducia sia all’interno sia all’esterno della Soka Gakkai e di diventare un esempio per la vostra grande armonia e allegria.
Vorrei parlarvi di Giuseppe Mazzini, filosofo vissuto nel diciannovesimo secolo, che aprì la strada all’indipendenza e alla riunificazione dell’Italia. In quell’epoca l’Italia si trovava sotto la dominazione straniera, il malgoverno regnava nel paese, la libertà di parola era negata e il popolo soffriva per la corruzione e l’arroganza di religiosi corrotti. In questa situazione Mazzini, fin da giovane, divenne un combattente per l’indipendenza del suo paese e continuò senza alcuna paura nonostante avesse dovuto subire la prigionia.
Questa lotta per l’indipendenza finì però col fallire ed egli si trovò in un vicolo cieco. Cosa doveva cambiare? Il giovane Mazzini analizzò acutamente la situazione per preparare la vittoria futura: uno dei punti era che i leader del movimento erano invecchiati e perciò avevano perso entusiasmo; un altro punto era che gli italiani speravano solamente nell’aiuto degli altri paesi e quindi la loro determinazione di cambiare la storia con le proprie forze era venuta meno; e soprattutto che il popolo era lontano dalla lotta. Questa fu la sintesi finale di Mazzini. I leader dell’epoca erano diventati arroganti ed evitavano il contatto diretto con le persone, non andavano più in mezzo alla gente. Ma finché il popolo non si fosse risvegliato e non avesse alzato la testa, non si sarebbe potuta raggiungere l’indipendenza della patria. Perciò Mazzini, basandosi sul suo senso di giustizia e sulla passione dei giovani, decise con forza di creare un grande movimento fondato sul popolo e nel 1831, all’età di ventisei anni, fondò la Giovine Italia. Scriveva: «Mettete i giovani alla testa del popolo! Quanta forza ci può essere nel senso di solidarietà dei giovani! Solo La voce dei giovani può manifestare un’immensa influenza sul popolo».
Questa è la base per riformare la storia in tutto il mondo e in tutti i tempi. 
Ora la Divisione giovani italiana sta crescendo magnificamente, e anche chi una volta ne faceva parte sta portando avanti una grande attività nelle Divisioni donne e uomini.
Mazzini incoraggiò a promuovere il dialogo con la gente comune: «Risvegliamo nei giovani il loro senso di missione!»; «Giovani andate sulle colline, sedetevi al tavolo con i contadini, andate nelle officine e dagli operai che non avete considerato fino a questo momento. Parlate loro della vera libertà, delle loro antiche tradizioni, della loro gloria, dei loro ricchi commerci del passato che ora non possono più fare. Parlate loro delle varie forme di dispotismo che non conoscono perché nessuno offre loro spiegazioni!».
A queste parole di Mazzini tanti giovani risposero con le loro azioni dedicando con coraggio la vita a costruire il futuro della loro amata patria. I giovani dialogarono con ogni persona con grandissimo impegno recandosi nelle loro case e portando con sé di città in città, da villaggio a villaggio, in tutti gli angoli del paese il loro organo ufficiale (potremmo paragonarlo alle pubblicazioni della Soka Gakkai), il giornale in cui era espresso il loro desiderio di indipendenza. Grazie a questa azione, la rete di solidarietà di chi voleva affiancarli nella lotta si allargava sempre di più, a migliaia e a decine di migliaia di persone, coinvolgendo tutti i ceti sociali.
Fu un giovane ad affermare: «Proprio quando abbiamo voglia di stare a casa, è il momento in cui dobbiamo uscire! Quando vogliamo tacere è il momento in cui dobbiamo parlare!».
Anche nel Buddismo l’azione è uguale alla fede e la voce svolge il lavoro del Budda. 
Se le autorità li avessero scoperti sarebbero potuti finire in prigione, essere esiliati o condannati a morte. Schiacciati da un’atroce repressione, alcuni persero la vita. Nonostante ciò, inseguendo sempre quel nobile ideale, i giovani alimentarono con ancora più tenacia il loro spirito combattivo, trasformando le sofferenze in onore e in gioia.
Anche Mazzini fu continuamente perseguitato; a causa di colpe non commesse venne trattato come un criminale e ricevette addirittura una condanna a morte.
Però vedeva le cose con grande lungimiranza: «Qualè la strada per risvegliare veramente il popolo?», si chiedeva. Arrivò alla conclusione che i leader per primi non devono arrendersi di fronte alle avversità, non devono perdersi d’animo davanti all’indifferenza né soccombere ad alcuna difficoltà. 
Le azioni di questi giovani mazziniani sono celebrate come quella grande “forza educativa per il popolo” che produsse uno straordinario contributo all’unificazione dell’Italia. Anche i leader che più tardi avrebbero sostenuto l’Italia vennero dalle file di questi giovani combattenti.
[…] Mazzini disse anche: «Lavorando per la patria, seguendo un giusto principio, noi lavoriamo per l’umanità».4 
Il Buddismo incarna i massimi valori etici: basandosi su questi valori, la Soka Gakkai Internazionale contribuisce alla prosperità dei vari paesi e dell’umanità in virtù degli ottimi cittadini del mondo che la compongono.
Mazzini affermò inoltre: «Cambiare in meglio se stessi e gli altri, questo è il primo scopo e il massimo che ci si può aspettare da tutte le riforme e le trasformazioni sociali».5 
E ancora: «La parola d’ordine della fede in futuro sarà “associazione”, collaborazione fraterna verso un obiettivo comune».6«
Vivete nella direzione che conduce alla pace, in armonia con il prossimo e con tutti gli amici del mondo, studiando e mettendo in pratica la filosofia della vita che permette di risolvere la sofferenza fondamentale della vita e della morte: questa è l’attività della Gakkai. Tutte le azioni che ognuno di noi fa per il movimento di kosen-rufu, grazie al principio di ichinen sanzen permetteranno di rendere felici non solo noi stessi ma anche la società e la nazione in cui viviamo.
Vorrei concludere con un’altra affermazione di Seneca: «L’uomo saggio è sempre in azione e dà il massimo di sé quando la fortuna gli si fa nemica».7 Diventate “saggi della vita” e realizzate un nuovo magnifico avanzamento con saggezza e vigore, in buona salute!”

Note:

1) Lucio Anneo Seneca, De tranquillitate animi.
2) Bolton King, The Life of Mazzini, a cura di Ernest Rhys, J. M. Dent & Sons, Ltd., Londra, 1914, p. 24.
3) Tetsuto Morita, Mattsini, Shimizu Shoin, Tokyo, 1972, p. 77.
4) Mazzini’s Essays, a cura di Ernest Rhys, Everyman’s Library, Londra, p. 55.
5) Ibidem, p. 19.
6) Ibidem, p. 51.
7) Lucio Anneo Seneca, Lettere morali a Lucilio, 85.

Gli esperti di troppo

Ivan Illich (1926-2002), controcorrente e visionario pensatore austriaco, pubblica nel 1977 Disabling professions, un testo a più voci redatto insieme ad alcuni suoi allievi che rappresenta il terzo contributo della trilogia – iniziata con Descolarizzare la società e proseguita con Nemesi medica – e nel quale l’autore si propone di svolgere un’analisi del ruolo esercitato dalle professioni nella società modernizzata. Scritto 40 anni fa prima dell’avvento degli anni ’80 e della più veloce rivoluzione della storia, oggi questo testo rivela l’attualità del suo pensiero.

Di seguito pubblico un estratto del suo saggio Esperti di troppo

Ivan Illich, esperti di troppo

L’Era delle Professioni sarà ricordata come l’epoca nella quale dei politici un po’ rimbambiti, in nome degli elettori, guidati da professori, affidavano ai tecnocrati il potere di legiferare sui bisogni; rinunciavano di fatto al potere di decidere in merito alle esigenze della gente diventando succubi delle oligarchie monopolistiche che imponevano gli strumenti con i quali tali esigenze dovevano essere soddisfatte. Sarà ricordata come l’Era della Scolarizzazione, in cui alle persone per un terzo della loro vita venivano imposti i bisogni di apprendimento ed erano addestrate ad accumulare ulteriori bisogni, cosicché, per gli altri due terzi della loro vita, divenivano clienti prestigiosi “pusher” che forgiavano le loro abitudini. Sarà ricordata come l’era nella quale dedicarsi a viaggi ricreativi significava andare in giro raggruppati a guardare la gente con l’aria imbambolata, e fare l’amore significava adattarsi ai ruoli sessuali indicati da sessuologi come Masters e Johnson e i loro allievi; l’epoca in cui le opinioni delle persone erano una replica dell’ultimo talk-show televisivo serale e alle elezioni il loro voto serviva a premiare imbonitori e venditori perché potessero fare meglio i comodi propri. [..]
Oltre un certo livello, la medicina genera incapacità e malattia; l’istruzione si trasforma nel principale generatore di quella divisione del lavoro che inabilita; i sistemi di trasporto veloci trasformano i cittadini urbanizzati in passeggeri per il 17 per cento delle loro ore di veglia. Per una stessa quantità di tempo, li trasforma poi nei membri di una banda che lavora per pagare la Ford, la Esso e le società autostradali. I servizi sociali generano impotenza e le istituzioni ingiustizia.
Le principali istituzioni delle società moderne hanno acquisito l’inquietante potere di sovvertire i veri obiettivi per i quali sono state originariamente costruite e finanziate. Sotto l’egida delle professioni più prestigiose, le ineffabili istituzioni hanno finito soprattutto per produrre una paradossale controproduttività: la sistematica disabilitazione dei cittadini. Una città costruita per le ruote diventa inadatta per i piedi.
Perché non ci si ribella contro questa tendenza del sistema a partorire servizi disabilitanti? Il motivo principale dovrebbe essere ricercato nel “potere di illudere” connaturato  di questi sistemi. A fianco della possibilità tecnica di manipolare il corpo e la mente, il professionalismo è anche un rituale potente che genera aspettative nelle cose che fa. Mentre insegna a leggere a Johnny, la scuola gli instilla la convinzione che imparare dagli insegnanti è meglio. Oltre a fornire possibilità di locomozione, potere sessuale e un senso di onnipotenza, l’automobile spinge anche a smettere di camminare. Mentre erogano aiuto legale, gli avvocati trasmettono ai loro clienti la nozione che essi stanno risolvendo i loro problemi personali. Oltre a stampare le notizie, i giornali convincono con i loro racconti che i medici stanno vincendo il cancro. Una parte sempre più crescente delle funzioni delle nostre istituzioni si dedica a coltivare e a mantenere cinque illusioni che trasformano il cittadino in un cliente che deve essere salvato dagli esperti.
La prima illusione che rende schiavi è l’idea che le persone sono nate per essere consumatori e che esse possono raggiungere i propri obiettivi acquistando beni. [..]
La seconda opprimente illusione si comprende concettualizzando il progresso tecnologico come un tipo di prodotto ingegneristico sempre più complesso e che perciò favorisce una maggiore dominazione professionale. [..]
Il terzo mito inabilitante prevede che eventuali strumenti efficaci per un uso non professionale debbano prima venire certificati da test professionali. [..]
La quarta illusione inabilitante ha a che fare con quegli esperti che si occupano dei limiti della crescita. Intere popolazioni, profondamente socializzati a bisogni di cui sono state convinte di essere portatrici, devono ora essere convinte del contrario, di “non” aver alcun bisogno. [..]
La quinta illusione vessatoria è il “radical chic” di questi anni. Come i profeti degli anni Sessanta si entusiasmavano per le percentuali di aumento dei benestanti, questi creatori di miti si riempiono la bocca della possibilità di professionalizzare i clienti. [..]

Le 8 qualità delle persone colte (e educate)

Nel 1886 il ventiseienne Anton Čechov scrive una lettera al fratello Nikolai, che in una precedente missiva si era lamentato molto di non essere compreso da chi gli stava intorno. Čechov esorta il fratello a cambiare stile di vita in modo da uniformarsi a quelli che lui considera i dettami di vita che una persona colta e educata (a seconda della traduzione) dovrebbe seguire elencandogli otto qualità fondamentali da avere.

Nick Hornby, una vita da lettore

La lettera si trova nel libro Vita attraverso le lettere ed io però ne sono venuto a conoscenza da Una vita da lettore di Nick Hornby, un testo che è una sorta di rubrica e di appunti sui libri che l’autore compra, legge e commenta trascrivendo note ed estratti. Secondo Hornby le lettere di Čechov “sono piene di consigli utili e validi ancora oggi. «Dormire con una puttana, respirarle dritto nella bocca, ascoltarla all’infinito mentre urina… che senso ha tutto ciò? Le persone civili vanno al di là dell’obbedienza ai più bassi istinti. Domandano a una donna più di un letto, un sudore equino, e il rumore dell’urina che gocciola». Ovviamente ha ragione. Non ha senso. Ma quel gocciolio di urina… dopo qualche anno dà una specie di assuefazione, o no? Se non avete neanche iniziato ad ascoltarlo, posso solo invitarvi a non farlo mai.
A parte la specifica ossessione per il rumore del piscio, qui troviamo la rappresentazione di una moderna vita di scrittore. C’è l’aspetto del denaro, naturalmente, ma anche i pettegolezzi e un’inesauribile attività benefica, e la fama (Čechov veniva riconosciuto ovunque andasse). È anche l’unico genio in cui mi sia imbattuto del tutto inconsapevole, oltreché noncurante, dell’immensità del suo talento. […]”

Di seguito la lettera, tratta da internet, con gli otto consigli:

Spesso ti sei lamentato con me del fatto che le persone “non ti capiscono”! Goethe e Newton non si sono mai lamentati di questo… Solo Cristo se n’è lamentato, ma stava parlando della Sua dottrina e non di Sé stesso… Le persone ti capiscono perfettamente. E se tu non comprendi te stesso, non è una loro colpa.
Ti assicuro, da fratello e da amico, che io ti capisco e mi dispiaccio per te con tutto il mio cuore. Conosco le tue buone qualità come conosco le mie cinque dita; le apprezzo e le rispetto profondamente. Se vuoi, per provarti che ti capisco, posso enumerare le qualità che possiedi. Io penso che tu sia gentile, magnanimo, generoso, pronto a condividere il tuo ultimo centesimo; non provi invidia né odio; sei un cuore semplice; sei fiducioso, senza livore o inganno, e non ricordi il male… Hai un dono che gli altri non hanno: hai talento. Questo talento ti pone al di sopra di milioni di uomini, sulla terra solo una persona su due milioni è artista. Il tuo talento ti distingue: se tu fossi un rospo o una tarantola, anche allora la gente ti rispetterebbe, per il talento tutte le cose sono perdonate.
Hai solo una mancanza, e la falsità della tua posizione e la tua infelicità sono causate tutte da questa. Si tratta della tua assoluta mancanza di cultura. Perdonami, ma veritas magia amicitiae… Vedi, la vita ha le sue condizioni. Per sentirsi a proprio agio tra le persone istruite, per sentirti a casa tua ed essere felice insieme a loro, devi essere colto in una certa misura. Il talento ti ha portato in un tale cerchio di conoscenze, ne fai parte, ma… ne sei allontanato, e tu vacilli tra le persone colte.
Secondo me le persone colte devono soddisfare le seguenti condizioni:
1. Rispettano la personalità umana, e perciò sono sempre cortesi, gentili, educate e pronte a dare agli altri. Non fanno casini per un martello o per aver perso un pezzo di caucciù; se vivono con qualcuno non lo considerano un favore e, andando via, non dicono: «Nessuno può vivere con te». Tollerano il rumore e il freddo e la carne secca e le battute e la presenza di estranei a casa loro.
2. Hanno simpatia non solo per i mendicanti e i gatti. Il loro cuore soffre per ciò che l’occhio non vede… Si siedono di notte al fine di aiutare P… a pagare l’Università per i fratelli, e a comprare vestiti per la loro madre.
3. Rispettano la proprietà degli altri, e perciò pagano i loro debiti.
4. Sono sinceri e hanno paura di mentire come del fuoco. Non mentono nemmeno nelle piccole cose. Una bugia è un insulto a chi l’ascolta e lo pone in una posizione inferiore agli occhi di chi parla. Non si atteggiano, si comportano in strada come fanno a casa, non si vantano davanti ai loro amici più umili. Non sono portati a cianciare e a riversare sugli altri le loro confidenze non sollecitate. In segno di rispetto per le orecchie degli altri, stanno più spesso in silenzio anziché parlare.
5. Non si denigrano per suscitare compassione. Non fanno leva sulle corde dei cuori degli altri così da farli sospirare e ottenere molto da questi. Non dicono: «Sono stato frainteso» o «Sono diventato di seconda categoria» perché tutto ciò che cerca di ottenere un effetto a buon mercato è volgare, stantio, falso…
6. Non hanno alcuna superficiale vanità. A loro non importa di tali falsi diamanti come conoscere celebrità, stringere le mani dell’ubriaco P… Se riescono a fare qualche soldo non si pavoneggiano come se avessero accumulato cento rubli, e non si vantano di poter entrare in posti in cui gli altri non sono ammessi… Il vero uomo di talento si tiene sempre nell’oscurità tra la folla, il più lontano possibile dalla pubblicità… Persino Krylov ha detto che un barile vuoto fa più eco di uno pieno.
7. Se hanno talento, lo rispettano. A esso sacrificano tutto il resto: donne, vino, vanità… Sono orgogliosi del loro talento… Inoltre sono esigenti.
8. Sviluppano un sentimento estetico verso sé stessi. Non possono andare a dormire indossando i loro vestiti da giorno, vedere crepe alle pareti piene di insetti, respirare aria cattiva, camminare su un pavimento sul quale qualcuno ha sputato, cucinare i pasti su una stufa a nafta. Cercano, per quanto possibile, di frenare e nobilitare l’istinto sessuale… In una donna non vogliono una compagna da letto… Non chiedono un’intelligenza che si mostri nella menzogna continua. Se sono artisti, vogliono la freschezza, l’eleganza, l’umanità… Non tracannano vodka a tutte le ore del giorno e della notte, non annusano nelle dispense perché non sono maiali e sanno di non esserlo… Vogliono mens sana in corpore sana [una mente sana in un corpo sano].
E così via.
Così sono le persone colte. Per essere colti e non restare sotto il livello dei tuoi vicini non basta aver letto Il circolo Pickwick e imparato a memoria un monologo dal Faust.
È necessario un lavoro costante, giorno e notte, una lettura costante, lo studio, la volontà… Ogni ora è preziosa… Venendo a noi, rompi la bottiglia di vodka, metti da parte le menzogne e leggi… Turgenev, se ti piace, che non hai letto.
Devi eliminare la tua vanità, non sei un bambino… presto avrai trent’anni. È ora!
Ti aspetto… tutti noi ti aspettiamo.
Anton Čechov