Una generazione di cercatori? Con quali speranze?

Risultati immagini per donati colozzi giovani e generazioniEsattamente 20 anni fa (1997) usciva il libro Giovani e generazioni a cura di Pierpaolo Donati e Ivo Colozzi. Come sostenevano gli autori nell’introduzione, “a partire dagli ’60, il tema dei giovani è senza dubbio cresciuto di importanza e non cessa di interrogare la nostra società”. La novità di questo libro è stata quella di sopperire alla mancanza “di un’analisi della condizione giovanile nel contesto delle generazioni compresenti”. I giovani infatti “non sono quasi mai definiti “relazionalmente”, ossia in quanto vengano osservati e compresi per il modo in cui essi si rapportano alle altre generazioni (più grandi e più piccole) temporalmente compresenti. (..) I giovani sono un pianeta di generazioni con-fusive tra loro, con confini sempre più labili e aperti verso le generazioni più adulte. Nello stesso tempo, essi sono distinguibili in gruppi molto eterogenei, che si costituiscono sulla base di fattori socioculturali discriminanti. Tra questi fattori quello più importante è senza dubbio il fattore religioso. Per dirla in breve: quanto più forte è il senso della religiositià nei giovani, tanto più c’è per essi speranza e futuro (..).” 

Le analisi della ricerca toccano i vari aspetti del mondo giovanile di allora: le dinamiche di socializzazione familiare, il coinvolgimento nelle reti primarie e secondarie di vita, le esperienze scolastiche e i problemi di inserimento nel mondo del lavoro, i loro valori e dinamiche culturali, la religiosità dei giovani, per finire su come i giovani usino i tempi di vita quotidiana e definiscano i loro progetti per il futuro. L’obiettivo generale dell’indagine è quello di comprendere quali percorsi di vita conducano i giovani a sentirsi più o meno “generazione”, nel duplice senso di sentirsi generati e sentirsi capaci di generare il loro futuro.

Sebbene siano passati tutti questi anni e quindi i dati e le statistiche possano essere cambiate, il libro offre ancora diverse interessanti riflessioni sulla condizione ed il tempo giovanile, nonché sul significato di essere e sentirsi “generazione”. Di seguito riporto il paragrafo conclusivo del libro “Una generazione di cercatori? Con quali speranze?” che a tutt’oggi aspetta risposte.

5.1 All’inizio ci eravamo posti alcuni interrogativi ai quali, per terminare, vorremmo rispondere molto sinteticamente.
Come vivono i giovani il loro tempo, sia quello quotidiano sia quello della propria epoca storica? Perché è venuta meno la memoria storica? Perché manca la progettualità? Come si vivono i gioani in quanto generazione storica?
In linea generale, abbiamo visto come i giovani non percepiscano più il tempo così come lo sentivano le generazioni più anziane, ossia come un’esigenza di sacrificio e progetto, Già i loro genitori hanno perso molto di quel significato, tramandato fino a loro dalla religione come un tempo di prova e di messa a frutto dei talenti di ciascuno. Era, quella, la concezione del tempo come un’opportunità data per “vivere bene” (“tempus breve est”), nel senso di “metterlo a frutto” nella speranza di una salvezza ultraterrena. La memoria storica è stata dispersa e quasi annullata dalle dinamiche di una società della pura comunicazione che si regge sulle immagini del presente. La famiglia fa molta fatica a ri-rappresentare le memorie del passato. Le ha consegnate alla scuola, la quale si trova ora in grandi difficoltà a far fronte a questo compito. La progettualità giovanile manca semplicemente perché non è più richiesta da questo tipo di società, e in concreto da questo mondo adulto, s’intende così come lo percepiscono i giovani. È logico, quindi, che i giovani tendano a viversi come una generazione priva di dimensione storica, o la cui storia sarà fatta da un futuro che essi sentono di non potere né prevedere né tanto meno progettare. Se il futuro non può nemmeno cominciare, come dice Luhmann [1984, trad. it. 1990] che senso ha crescere? Perché un giovane dovrebbe crescere? Evidentemente, crescere ha senso dove ci sono delle scelte da fare, per quanto le scelte possano essere accettate o respinte.
Il malessere giovanile sta precisamente qui. Ma non tutti i giovani, come abbiamo visto, ne restano preda. Per ora, la maggior parte di essi riesce ancora a sfuggire alle contraddizioni e ai rischi lacerante in cui sono immersi. Buona parte dei giovani vive il tempo con volontà autonoma e capacità di scelta (gli “impegnati”, pari al 28,1%), altri vivono il tempo come conformità ai programmi del loro ambiente sociale (i “programmati”, pari al 30,6%) alcuni sono già entrati in un tempo vincolato da ruoli istituzionali di famiglia e di lavoro (gli “strutturati istituzionali”, pari al 20,8%), e altri ancora hanno totamlente perso una nozione e un uso valoriale del tempo (i “destrutturati”, pari al 20,6).
Ma fino a quando la maggior parte dei giovani riuscirà a vivere il proprio tempo (il tempo sociale dell’esistenza quotidiana) come significativo e progettuale? La modesta risposta che ci sentiamo di dare è: fino a quando riuscirà a persistere e rigenerarsi il senso della generazionalità, così come lo abbiamo definito in questa ricerca.

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Gli anni pietosi

Di seguito pubblico un’estratto del capitolo I Dai Trenta gloriosi ai Trenta pietosi del libro La Scomparsa della sinistra in Europa (2016) di Aldo Barba e Massimo Pivetti. Un’ottima recensione del libro (assieme a quello di Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia) la fa Carlo Galli nell’articolo Il suicidio delle sinistre.

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1. Le vicende che hanno portato alla scomparsa della sinistra in Europa sono destinate a restare in larga misura oscure senza un’analisi della grande svolta di politica economica avvenuta tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Si tratta di mettere a fuoco i contorni del progetto economico e politico in cui ci troviamo tuttora immersi, riuscire a coglierne i determinanti, i principali contenuti, gli esiti. In altre parole, è necessario porre in discussione un ordine economico e sociale impostosi come il solo razionale e possibile. Scriveva lo scienziato politico Steven Weber nel 1997 su Foreign Affairs:
“L’economia delle nazioni occidentali è stata sin dalla rivoluzione industriale un mondo vibrante caratterizzato da rapida crescita e sviluppo, almeno per i Paesi del “nucleo” industrializzato. Ma essa è stata pure un mondo di continue e spesso enormi fluttuazioni dell’attività economica. I cicli industriali – espansioni e contrazioni diffuse a quasi tutti i settori di un’economia – hanno finito per essere accettati come un fatto della vita. Tuttavia, le economie moderne operano differentemente dalle economie industriali del diciannovesimo secolo e della prima parte del ventesimo secolo. Cambiamenti nella tecnologia, nell’ideologia, nelle occupazioni e nella finanza, di concerto con la globalizzazione della produzione e del consumo, hanno ridotto la volatilità dell’attività economica nel mondo industrializzato. Per ragioni sia teoriche che pratiche, nei Paesi industrialmente più avanzati le onde del ciclo industriale potrebbero diventare più simili ad increspature sulla superficie dell’acqua, che vanno via via a scomparire. La fine del ciclo è destinata a cambiare l’economia mondiale, minando alla base le assunzioni e gli argomenti che gli economisti hanno utilizzato per comprenderla.”
Considerazioni trionfalistiche come queste ben esprimono il clima intellettuale entro il quale si è andato strutturando il nuovo assetto di politica economica che i Paesi industrialmente avanzati si sono dati dalla fine degli anni Settanta. Niente meno che una “nuova era” sarebbe stata aperta dal cambiamento tecnologico e dalla rimozione degli ostacoli ideologici che avevano impedito lo sviluppo globale della finanza, della produzione e del consumo. Le crisi economiche, un tempo percepite come connaturate al capitalismo, non erano in realtà che la manifestazione di una sua immaturità. Più precisamente, andavano comprese collocandole entro la fase di sviluppo caotico e instabile apertasi con l’insorgere delle istanze protezionistiche e nazionalistiche tra la prima e la seconda guerra mondiale e avviatasi a conclusione con il neo-conservatorismo di Reagan e della Thatcher: nelle parole del premio Nobel per l’economia Robert Lucas, «la Macroeconomia […] ha raggiunto i suoi scopi: il suo problema centrale, la prevenzione della depressione, è stato risolto ed è nei fatti risolto per molti decenni».”

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Le lauree più richieste nel mondo del lavoro

In questo periodo estivo, se per molti giovani è il tempo del riposo, della ricarica e dello stacco dal lavoro, per tanti altri che invece hanno appena terminato le scuole superiori è il tempo delle scelte.

Continuare a studiare o fermarsi e cercare subito un lavoro? E se si decidesse di continuare, quale facoltà scegliere? Rimanere in Italia o andare all’estero?

Col senno di poi, il mio modesto suggerimento (se si hanno le possibilità economiche) è quello di andare a studiare all’estero, che poi per tornare c’è sempre tempo. Più difficile è il contrario, ossia studiare qui prima e poi andare a cercare lavoro all’estero, a meno che non si sia già dei professionisti qui con un’ottima padronanza della lingua del posto prescelto.

Fondamentale è in questo periodo cercare di fare più chiarezza possibile su quelle che sono le nostre passioni, attitudini ed abilità, senza dimenticarci di quali siano le richieste del mercato lavorativo.

Quali sono quindi le lauree più richieste?

Qualche indagine ci può venire in aiuto. Studenti.it riprendendo i dati dell’ultimo rapporto di Almalaurea osserva che le migliori percentuali statistiche di occupazione le ottengono gli studenti delle Facoltà delle Professioni sanitarie, (Medicina, Scienze infermieristiche e tutte le altre tecnico-sanitarie) seguite poi da Ingegneria, Scienze statistiche ed Economia.
In questo periodo particolare, da quanto emerge dall’analisi del sistema informativo Excelsior sulle previsioni di assunzione delle imprese private dell’industria e dei servizi tra luglio e settembre di quest’anno, i laureati più “rari” da procurarsi sul mercato (secondo le aspettative delle aziende) sono quelli nelle discipline linguistiche (interpreti e traduttori), (69,9%) seguiti da: ingegneri elettronici (58,7%) e ingegneri industriali (50,2%), matematici e fisici (40,9%).
Per i diplomati invece sono faticose 2 ricerche su 5 rivolte all’indirizzo in produzione industriale e artigianale e in informatica e telecomunicazioni (45,1%), seguiti poi dai profili tecnici diplomati in costruzioni, ambiente e territorio (34,0%), quelli in meccanica (29,6%) e quelli in elettronica ed elettrotecnica (30,6%).
Nel medio-lungo termine invece, vista la velocità dei cambiamenti socio-economici-lavorativi, per far fronte alle professioni del futuro, c’è chi pensa che la facoltà migliore sia quella di Filosofia.

L’articolo Data scientist o saldatore? La nuova geografia dei mestieri di qualche mese fa di pagina99 provava a fare il punto su quali siano le professioni più richieste nel mercato italiano del lavoro. Ne riporto un estratto.

(..) In pochi campi come il lavoro (che non c’è) le agenzie di stampa battono ogni giorno dichiarazioni in libera uscita di politici, ministri e opinionisti a vario titolo: dai giovani “choosy” – disoccupati perché schizzinosi – alle giaculatorie sui guasti di un’università che sforna laureati nelle discipline sempre sbagliate, il ventaglio di giustificazioni portate a spiegazione di una disoccupazione giovanile che, pur in calo, resta sopra il 35%, sono molte. Non sempre, però, queste sono aderenti ai dati e alle ricerche che disegnano in realtà un quadro abbastanza chiaro.

Su cosa bisogna puntare

Incrociando i dati Excelsior delle Camere di commercio, lo “Skills Panorama” promosso dall’istituto europeo Cedefop e altri dati risulta evidente che l’Italia è un Paese che richiede una percentuale preponderante di lavoro non qualificato, ma che già oggi e sempre più nei prossimi anni offrirà buone opportunità per chi sceglie di laurearsi in ingegneria e nelle discipline scientifiche, soprattutto matematica, statistica e informatica. C’è posto anche per i vituperati laureati in scienze della comunicazione e affini, a patto che abbiano una formazione molto orientata ai nuovi media, mentre per chi non si vuole laureare, la strada migliore è quella delle discipline tecniche. Si tornerà, inoltre, a fare gli operai, ma operai altamente specializzati. Detto in parole spicce: in un Paese di cuochi e camerieri, sarà l’industria 4.0 (nuovi materiali, uso massiccio di connessioni wireless e data analysis, macchine intelligenti) l’ancora di salvezza per chi cerca un lavoro ben qualificato, sia ai livelli molto alti che a quelli più esecutivi.

Le specializzazioni più richieste

Se guardiamo all’ultimo bollettino Excelsior disponibile e che riguarda le assunzioni previste nel primo trimestre 2017, la professione dove un maggior numero di imprese (56,2%) dichiarano difficoltà a trovare addetti (escluso i dirigenti) è quella degli “ingegneri e professioni assimilate” per cui sono previste 3.900 assunzioni. Chi oggi si laurea in una buona università in questo settore ha quindi un posto di lavoro assicurato.

Al Politecnico di Milano le percentuali di occupazione un anno dopo i festeggiamenti per la laurea magistrale in ingegneria superano il 90%. «Abbiamo visto quanto sia cresciuta la percentuale di occupati a un anno. Solo per fare un esempio: per gli ingegneri informatici siamo al 99%, per il campo meccanico poco al di sotto, al 97,8%», spiega il rettore Ferruccio Resta. «Soprattutto le richieste sono per una vasta gamma di competenze nella gestione dei dati. In tutti i settori: dal manifatturiero alle aziende chimiche e meccaniche le domande sono sempre più dirette verso i “data scientist”, in assoluto la figura professionale più richiesta». (..)

Tuttavia è bene sottolineare che l’Italia è un Paese – ancora i dati Excelsior lo dicono – che offre ai laureati un 17% delle nuove assunzioni. Per il 15% serve un titolo di qualifica professionale. Per il 67% restante è sufficiente un diploma, o nemmeno quello. Questo non vuol dire che non convenga laurearsi – i dati mostrano che le occupazioni più richieste sono comunque quelle a più alta qualificazione – ma certo i dati disegnano un Paese caratterizzato da un sistema economico poco orientato all’alta formazione. (..)

Su quest’argomento poi mi è tornato in mente il provocatorio libro del 2008 di Pier Luigi Celli Comandare è fottere, che in un capitolo illustra l’importanza di un buon curriculum e degli studi da fare per trovare lavoro nelle aziende. Riporto l’estratto su quali facoltà secondo l’autore servano maggiormente.

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(..) Il curriculum è sacro, e non mente. Perché non è altro che una radiografia: sintetica, essenziale, brutale persino. Se ci sono della magagne, non sfuggono. Se la struttura “ossea” lascia a desiderare, nessuno si farà illusioni sul vostro rendimento futuro.
E dunque va preparato, cominciando col non trascurare la scelta scolastica.
A proposito della quale, lasciando da parte le ubbie dei parenti e il sentimentalismo adolescenziale che tenderà a enfatizzare gli inutili innamoramenti filosofici o estetici, ricordate che quello che conta è ciò che diranno quelli che vi devono selezionare. Ai quali non importerà nulla dei vostri tormenti esistenziali, non essendo disposti a mettere in conto titubanze, indecisioni, rapporti personali, affetti e cianfrusaglie varie.
La scuola non è una cosa seria per quello che i libri dicono, ma per quanto vi predispone a saper fare quello che i vostri futuri capi vi chiederanno. Innanzitutto, la capacità di adattarsi a obbedire.
Sotto questo profilo Ingegneria ha dei vantaggi.
Obbliga ad un metodo, scarta le strade di dubbia fama, orienta ad avere ragione confidando nella superiore razionalità degli strumenti che si adottano.

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L’imperativo di un nuovo umanesimo

Di seguito propongo la lettura del paragrafo L’imperativo di un nuovo umanesimo” di Aurelio Peccei dal libro Lezioni per il XXI secolo.

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Nell’ottobre 1974 il Club di Roma tenne a Berlino Ovest la sua riunione plenaria, durante la quale fu ufficialmente presentato  il secondo rapporto al Club, “Strategie per sopravvivere” di Mihajlo Mesarovic ed Eduard Pestel. Commentando il volume nella sua autobiografica intellettuale “La qualità umana”, Peccei scrive: “Esso riflette la situazione dell’umanità alla metà degli anni Settanta e pone la drammatica alternativa: o si crea una società veramente globale, su basi di solidarietà e di giustizia, di diversità e di unità, di interdipendenza e di quella che oggi si chiama self-reliance (cioè contare sovrattutto su se stessi) oppure ci troveremo tutti, nel migliore di casi di fronte a una disintegrazione del sistema umano accompagnata da catastrofi regionali e, alla fine, forse, da una catastrofe globale. A tale conclusione sono giunti i gruppi di Mesarovic e Pestel dopo tre anni di vaglio scientifico delle prospettive umane”. Qui di seguito presentiamo l’introduzione di Peccei alla sessione plenaria di Berlino Ovest del 14-15 ottobre 1974.

Ci troviamo ormai al Sesto Meeting Annuale da quando il Club di Roma è stato fondato nell’aprile del 1968, sei anni e mezzo fa, un periodo di tempo veramente molto breve in termini storici, Tuttavia, osservando in prospettiva la situazione mondiale, si percepisce che in tale breve periodo essa è peggiorata fino a far scattare l’allarme.
Come prima cosa, la popolazione della Terra è aumentata vertiginosamente. Conservatorismo, dogmatismo e superficialità possono confondere la questione: ma la dura realtà è che le ormai superate strutture politiche e sociali mondiali stanno cedendo sotto la pressione dell’incremento demografico e della congestione che ne deriva; la produzione  e la distribuzione di viveri e lo sviluppo economico in generale non hanno retto a questa sfida. Nel contempo, l’ambiente e il clima mondiale sono ormai entrati in una fase meno propizia. Così, l’assoluta povertà e lo squallore sono ora la sorte comune di popolazioni più vaste di quanto non fosse qualche anno fa, mentre le disparità si accentuano sempre più. Lo spettro biblico della carestia è riapparso infliggendo inedia, precarie condizioni di salute morte a molta più gente di qualsia altro tempo passato. Il numero di uomini malnutriti, ammalati, analfabeti, disoccupati o altrimenti emarginati alla base della società, invece di ridursi, in questo periodo è drasticamente aumentato. La speranza di una migliore qualità della vita ha abbandonato molte regioni.
Anche nei paesi più ricchi, milioni di individui sono nella morsa della disoccupazione e dell’incertezza molto più che in passato. Ci sono voluti solo alcuni anni perché l’economia mondiale andasse alla deriva, se stesse fondamenta del commercio internazionale fossero capovolte e i sistemi monetari costituissero un dilemma. I paese industrializzati sono talmente esaltati dal petrolio a basso prezzo da affermare che tale abbondanza costituisce la causa principale della loro prosperità e la promessa di un futuro di costante espansione. Ora tutte le nazioni con scarse riserve di energia devono misurarsi con la pressante necessità di ristrutturare sostanzialmente la propria economia.

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