Dell’amore del prossimo

Di seguito riporto il paragrafo Dell’amore del prossimo di Friedrich Nietzsche tratto da Così parlò Zarathustra, ed. Newton Compton.

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Vi affollate intorno al prossimo e avete belle parole per questo. Ma io vi dico: il vostro amore del prossimo è il vostro cattivo amore per voi stessi.

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Sfuggite a voi stessi cercando il prossimo e vorreste farvene una virtù: ma io leggo nel vostro «altruismo».

Il tu è più vecchio dell’io: il tu è stato santificato, l’io non ancora: così l’uomo si spinge verso il prossimo.

Vi esorto io l’amore del prossimo? Vi esorto piuttosto alla fuga del prossimo e all’amore del lontano!

Più in alto dell’amore per il prossimo sta l’amore per il lontano e il futuro; più alto dell’amore per l’uomo è per me l’amore per le cose e per i fantasmi.

Questo fantasma, che corre davanti a te, fratello, è più bello di te: perché non gli dai la tua carne e le tue ossa? Ma tu hai paura e corri dal tuo prossimo.

Non resistete a voi stessi e non vi amate abbastanza: ora volete sedurre il prossimo all’amore e indorarvi col suo errore.

Preferirei che non resisteste a prossimi d’ogni sorta e ai loro vicini: così dovreste trarre il vostro amico e il suo cuore traboccante da voi stessi.

Voi invitate un testimone, quando volete parlar bene di voi; e quando l’avete sedotto a parlar bene di voi, pensate voi stessi bene di voi. 

Non mente soltanto chi parla contro ciò che sa, ma soprattutto chi parla contro quello che non sa. E così voi parlate di voi  nelle vostre relazioni e ingannate con voi stessi il vicino.

Così parla il buffone «il contatto con le persone rovina il carattere, specialmente quando non se ne ha uno».

Uno va dal prossimo, perché cerca sé stesso, un altro, perché vorrebbe perdere sé stesso. Il vostro cattivo amore fa per voi stessi fa della vostra solitudine una prigione. 

Sono i lontani che pagano il vostro amore per il prossimo; e già quando siete radunati in cinque, c’è un sesto che deve morire.

Nemmeno le vostre feste amo: vi incontrai troppi commedianti ed anche gli spettatori spesso si atteggiavano come commedianti.

Non vi insegno il prossimo, ma l’amico. L’amico sia per voi la festa della terra e il presentimento del superuomo.

Vi insegno l’amico e il suo cuore colmo. Ma si deve saper essere una spugna, se si vuol esser amati da cuori colmi.

Vi insegno l’amico in cui si trova, già pronto, il mondo, una coppa di bene, – l’amico creatore, che ha ognora un mondo pronto da donare.

E il mondo, come gli si svolse davanti, così si riavvolge davanti a lui ad anelli, come lo scaturire del bene dal male, come lo scaturire dei fini dal caso fortuito.

Il futuro e il lontano sia per te la causa dell’oggi: nel tuo amico devi amare il superuomo come la tua causa.

Fratelli miei, non vi esorto all’amore del prossimo: vi esorto all’amore del lontano.

Così parlò Zarathustra.

L’interfaccia del futuro politico

Sulla scia delle ultime elezioni francesi mi è tornato in mente un thriller di fantapolitica che avevo letto qualche anno fa: Interface (1994) di Stephen Bury (pseudonimo di Neal Stephenson, autore di Snow Crash, e J. Frederick George).

#stefanobosso ph. 2015

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Che cosa succederebbe se a uno dei prossimi candidati alla presidenza degli Stati Uniti venisse impiantato direttamente nel cervello un biochip molto speciale?
Se improvvisamente sapesse rispondere a tutte le domande dei media con un tempismo perfetto?
Se potesse letteralmente entrare nella testa dei suoi potenziali elettori?
Se avesse costante accesso a sondaggi aggiornati al minuto?

Interface è un romanzo davvero molto avvincente, divertente ed attuale.
E’ la storia del governatore dell’Illinois, William Aron Cozzano candidato alla presidenza degli Stati Uniti ed uscito illeso da un gravissimo incidente stradale a seguito del quale però si ritrova con un biochip impiantato nel cervello. Tale chip lo connette ad un a un sofisticato sistema computerizzato che gli permette di interfacciarsi direttamente con le tendenze e le opinioni dell’elettorato. Potrà “sentire” lo stato d’animo degli elettori e dire loro quello che più vogliono sentire dire. Il sogno di ogni politico.

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Le cose per cui ho vissuto

Il 18 maggio 1872 nasceva uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi: Bertrand Russell.

Di seguito riporto Le cose per cui ho vissuto, tratto da L’autobiografia 1872-1914, Longanesi, 1969.

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Tre passioni, semplici ma irresistibili, hanno governato la mia vita: la sete d’amore, la ricerca della conoscenza e una struggente compassione per le sofferenze dell’umanità. Queste passioni, come forti venti, mi hanno sospinto qua e là secondo una rotta capricciosa, attraverso un profondo oceano di dolore che mi ha portato fino all’orlo della disperazione.

Per prima cosa ho cercato l’amore, perché dà l’estasi, un’estasi così profonda che spesso avrei sacrificato tutto il resto della vita per poche ore di una tale gioia. L’ho ricercato anche perché allevia la solitudine, la solitudine paurosa che induce l’io cosciente ad affacciarsi rabbrividendo sull’orlo del mondo per fissare lo sguardo nell’abisso freddo e senza fondo dove non c’è più vita. L’ho cercato infine perché nell’unione dell’amore ho visto prefigurato, quasi in mistica miniatura, il paradiso che santi e poeti hanno immaginato. Questo è ciò che io ho cercato e benché possa sembrare cosa troppo buona per una vita umana, questo è ciò che infine ho trovato.

Con uguale passione ho cercato la conoscenza. Ho desiderato di conoscere il cuore dell’uomo. Ho voluto sapere perché le stelle brillano. Mi sono sforzato di rendermi conto della potenza già intuita da Pitagora, che assicura al numero il dominio sopra il fluire delle cose. In parte, in piccola parte, vi sono riuscito.

L’amore e la conoscenza, nella misura in cui sono stati possibili, conducevano su verso il cielo. Ma la compassione mi ha sempre riportato sulla terra. Gli echi di grida di dolore risuonano nel mio cuore. Bambini che muoiono di fame, vittime torturate dagli oppressori, vecchi indifesi considerati dai figli un peso insopportabile, e tutto quel mondo di solitudine, povertà e dolore trasformano in beffa ciò che la vita dell’uomo dovrebbe essere. Provo lo struggimento del non poter alleviare questi dolori, e anch’io ne soffro. Questa è stata la mia vita. Trovo che sia valsa la pena di viverla, e la rivivrei con gioia se me ne fosse offerta la possibilità.

Un discorso di Seneca

estratti da Lettere a Lucilio, (libro I, 8) di Lucio Anneo Seneca.

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(..) Ma cosa dici? Ti sembra che io inviti all’inattività? Mi sono ritirato e ho chiuso le porte non per me ma per poter essere utile a quanta più gente possibile. Non c’è giorno in cui io non faccia qualcosa, persino una parte della notte la dedico agli studi: io non mi abbandono al sonno deliberatamente, finisco col cedervi dopo aver costretto al lavoro gli occhi che si chiudono, stanchi e affaticati dalla veglia. Più che dagli uomini è dalle cose che mi sono allontanato: ho lasciato i miei impegni personali per dedicarmi agli affari dei posteri.

È per loro che scrivo, è a loro che voglio essere utile, affidando alle mie pagine consigli salutari, come se fossero ricette di medicine, delle quali io stesso ho sperimentato l’efficacia sulle mie ferite, che se non si sono completamente rimarginate perlomeno hanno delimitato la loro area di azione. Mostro agli altri la retta via, che ho conosciuto tardi, quando ormai ero stanco per il lungo peregrinare.

Io grido agli uomini: «Evitate tutto ciò che piace al volgo e che proviene dal caso; guardate con sospetto e timore ogni bene fortuito, non fate come i pesci e le bestie che si lasciano ingannare da allettanti lusinghe. Credete che questi siano doni della fortuna? Sono trappole. Se volete vivere una vita sicura evitate quanto più potete questi beni appiccicosi, che traggono in inganno noi, sventurati anche in questo, che crediamo di possederli quando invece siamo incappati nella rete. Non ci accorgiamo che questa strada ci porta al precipizio: chi sale troppo in alto è destinato a cadere. E una volta che la buona sorte ha cominciato a farci deviare dalla retta via non ci è più lecito tornare indietro, non ci sono alternative, si prosegue e si va dritti al precipizio. La malasorte non solo ci travolge, ma ci sbatte e ci schianta con la faccia a terra.

Seguite questa sana e salutare norma di vita: concedete al corpo solo quanto gli serve per mantenersi in buona salute, trattatelo piuttosto duramente affinché si pieghi alle giuste esigenze dello spirito, mangi e beva quanto basti per placare la fame e spegnere la sete, indossi abiti adatti a proteggerlo dal freddo e la casa gli serva unicamente come riparo contro le intemperie: che sia fatta di zolle o di marmo forestiero e variegato non ha importanza, poiché per coprirsi tanto vale un tetto di foglie quanto un tetto d’oro. Disprezzate tutto ciò che si costruisce, a prezzo di vane fatiche, per vivere nel lusso o per motivi di prestigio: solo l’anima è degna di ammirazione e quando è grande lei niente è grande per lei».

Ebbene, non ti sembra che io sia più utile se discuto di queste cose, con me stesso o con i posteri, piuttosto che parlare come avvocato difensore in un processo, mettere i sigilli ai testamenti, o usare la mia voce e i miei gesti a favore di uno che si candida come senatore? Credimi, anche se non sembra, ci sono cose molto più importanti che non costano nulla, come occuparsi delle cose umane e di quelle divine contemporaneamente. (..)

Il discorso di una bambina – Rio 1992

Nel 1992, a Rio de Janeiro un gruppo di giovani fondatori dell’ECO (l’organizzazione dei ragazzi per l’ambiente) è stato invitato ad esprimersi davanti alle Nazioni Unite. Una bambina di 12 anni, Severn Cullis-Suzuki, tiene un appassionato (ed ancora attuale) discorso per sensibilizzare i grandi della Terra riguardo le problematiche ambientali che rischiano sempre più di mettere in pericolo la vita delle generazioni future.

Quanto è cambiato da allora?

Di seguito il discorso intero.

Buona sera sono Severn Suzuki e parlo a nome di ECO, (Environmental Children Organization). Siamo un gruppo di ragazzini di 12 e 13 e cerchiamo di fare la nostra parte: Vanessa Suttie, Morgan Geisler, Michelle Quaigg e io. Abbiamo raccolto i nostri soldi per venire in questo posto lontano 5000 miglia per dire alle Nazioni Unite che devono cambiare il loro modo di agire.

Venendo a parlare qui oggi non ho un agenda nascosta, sto solo lottando per il mio futuro. Perdere il mio futuro non è come perdere un elezione o alcuni punti percentuali sul mercato azionario.

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L’ultimo uomo del Rinascimento

Nel bellissimo libro 23 Cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo l’economista coreano Ha-Joon Chang si pone come obiettivo primario quello di svelarci i falsi miti economici del mondo in cui viviamo. In particolare la sua critica è rivolta contro il capitalismo neoliberista che ha dominato il mondo negli ultimi trent’anni, con il risultato di ritrovarci con un’economia globale a pezzi e con una crisi economica e sociale che non sembra trovare fine.

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Il libro attraverso 23 capitoli – ognuno dei quali tenta di chiarire con ricchezza di fatti, dati ed esemplificazioni uno specifico tema – vuole fornire al lettore gli strumenti per capire come funziona il capitalismo e come potrebbe funzionare meglio. Ed anche se gli argomenti trattati non hanno risposte semplici, “finché non affronteremo questi argomenti, non potremo realmente comprendere come funziona il mondo. E finché non lo comprenderemo, non saremo in grado di difendere i nostri interessi, né tanto meno migliorare lo stato delle cose in qualità di cittadini economicamente attivi”, sottolinea l’autore nell’introduzione.

Nel capitolo 16 l’autore tenta di spiegarci perché non siamo abbastanza intelligenti da lasciar fare al mercato, e che quindi abbiamo bisogno di regole proprio perché non siamo abbastanza intelligenti.

Riporto la maggior parte del paragrafo L’ultimo uomo del Rinascimento, incentrato su Herbert Simon.

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Lavorare manca

Lavorare manca (2014) è un libro di Diego Marani che intreccia brillantemente il racconto autobiografico a considerazioni personali sul mondo del lavoro passato e presente.

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Si parte dalle prime perplessità “perché il lavoro non è mai come ce lo spiegano a scuola, come lo immaginiamo da fuori, non è mai la conquista della libertà ma l’inizio di un’altra cosa, che più propriamente non si chiama neppure lavoro bensì fatica e che fa tutt’uno con la vita. (..)” E poi la maestra che “ci spiegava che tutti devono lavorare, che ogni mestiere anche il più umile, è nobile perché produce qualcosa di buono per tutti, che anche noi avremmo trovato il nostro e che la cosa più giusta da fare alla nostra età di bambini era imparare e studiare le cose che ci piacevano di più, così le avremmo fatte diventare il nostro mestiere e lavorare non ci sarebbe pesato per nulla, anzi sarebbe stata la nostra passione. (..)” E poi via in un fiume di ricordi e amare analisi del presente, passando dal primo lavoro sotto il sole a raccogliere le fragole per mettere da parte dei soldi per una canoa e grazie al quale il protagonista impara cosa vuol dire “avere un padrone e nient’altro che le proprie braccia. Contava poco il cervello, la cultura, la buona educazione, la bellezza, il fine pensiero. Il lavoro era tutto lì: per cavarsela con poco bisognava avere qualcosa di interessante da vendere. Sennò restavano solo le braccia. E guadagnarsi da vivere con quelle era una gran fatica”. Il lavoro dei nonni. L’esperienza inglese a Londra dopo la maturità a fare lo sguattero, il cameriere e il portiere. Gli studi. E finalmente il lavoro da funzionario a Bruxelles come interprete alle Cee. Poi tanto altro ancora, fino al ripresentarsi del problema lavoro, ma stavolta per il figlio. Un libro interessante, piacevole e semplice da leggere dove è facile identificarsi nelle avventure e nelle considerazioni dell’autore.

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