Gli effetti “cicatrice” della disoccupazione giovanile

estratti e traduzione dell’articolo Youth unemployment produces multiple scarring effects di Ronald McQuaid del 18 febbraio 2017.

È evidente che la disoccupazione giovanile ha molte conseguenze negative in termini di benessere materiale e mentale. In questo articolo Ronald McQuaid riassume i multipli effetti “cicatrice” della disoccupazione giovanile. L’attuale alto livello di disoccupazione giovanile avrà ripercussioni nella società per decenni, rendendo incredibilmente importanti le risposte politiche del presente.

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Secondo numerose ricerche (vedi ad esempio i lavori di Bell & Blanchflower e Strandh e altri), essere disoccupati da giovani conduce ad una maggiore probabilità di presenza di “cicatrici” nel prosieguo della vita in termini di: inferiori retribuzioni successive, maggiore disoccupazione e riduzione delle opportunità nella vita. Ci sono anche prove di maggiori problemi di salute mentale al raggiungimento dei ’40 o ’50 anni. Quindi l’impatto degli alti livelli di disoccupazione giovanile si avvertirà nella società per decenni.

Ci sono molti problemi nell’analizzare nel lungo termine le cause e gli effetti di tali cicatrici e le ragioni per cui esse sembrano interconnesse. Per esempio, il benessere e la salute mentale possono sì influire sui redditi successivi e sulle possibilità di ottenere e mantenere un lavoro, ma sono essi stessi influenzati dalla disoccupazione. Alcuni motivi diffusi e sovrapposti di queste cicatrici comprendono: (1) le risposte del datore di lavoro, (2) le capacità personali, (3) le aspettative, (4) la ricerca del lavoro e (5) l’influenza dei fattori esterni nell’economia e nella società.

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Il futuro demografico del paese

Il 26 aprile è uscito il report dell’Istat IL FUTURO DEMOGRAFICO DEL PAESE
Previsioni regionali della popolazione residente al 2065. Riporto la nota introduttiva ed alcuni estratti.

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La popolazione residente attesa per l’Italia è stimata pari, secondo lo scenario mediano, a 58,6 milioni nel 2045 e a 53,7 milioni nel 2065. La perdita rispetto al 2016 (60,7 milioni) sarebbe di 2,1 milioni di residenti nel 2045 e di 7 milioni nel 2065. Tenendo conto della variabilità associata agli eventi demografici, la stima della popolazione al 2065 oscilla da un minimo di 46,1 milioni a un massimo di 61,5. La probabilità di un aumento della popolazione al 2065 è pari al 7%.

Nello scenario mediano, mentre nel Mezzogiorno il calo di popolazione si manifesterebbe lungo l’intero periodo, per il Centro-nord, superati i primi trent’anni di previsione con un bilancio demografico positivo, un progressivo declino della popolazione si compierebbe soltanto dal 2045 in avanti. La probabilità empirica che la popolazione del Centro-nord abbia nel 2065 una popolazione più ampia rispetto a oggi è pari al 31%, mentre nel Mezzogiorno è pressoché nulla.

Appare dunque evidente uno spostamento del peso della popolazione dal Mezzogiorno al Centro-nord del Paese. Secondo lo scenario mediano, nel 2065 il Centro-nord accoglierebbe il 71% di residenti contro il 66% di oggi; il Mezzogiorno invece arriverebbe ad accoglierne il 29% contro il 34% attuale.

Le future nascite non saranno sufficienti a compensare i futuri decessi. Nello scenario mediano, dopo pochi anni di previsione il saldo naturale raggiunge quota -200 mila, per poi passare la soglia -300 e -400 mila unità in meno nel medio e lungo termine.

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Discorso ai giovani sulla Costituzione di Piero Calamandrei

Il discorso qui riprodotto fu pronunciato da Piero Calamandrei nel salone degli Affreschi della Società Umanitaria il 26 gennaio 1955 in occasione dell’inaugurazione di un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana organizzato da un gruppo di studenti universitari e medi per illustrare in modo accessibile a tutti i principi morali e giuridici che stanno a fondamento della nostra vita associativa.

L’art. 34 dice:” I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Eh! E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così:

”E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

E’ compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. primo – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro “- corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società.

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E allora voi capite da questo che la nostra costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!

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Le prospettive economiche per i nostri nipoti di J.M. Keynes (1930)

estratti da Le prospettive economiche per i nostri nipoti di J.M. Keynes (1930).

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#STEFANO BOSSO PH, N.Y. 2016


(..) La depressione che domina nel mondo, l’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni, i disastrosi errori che abbiamo commesso ci rendono ciechi di fronte a quanto sta accadendo sotto il pelo dell’acqua, cioè di fronte al significato delle tendenze autentiche del processo. Voglio affermare, infatti, che entrambi i contrapposti errori di pessimismo, che sollevano oggi tanto rumore nel mondo, si dimostreranno errati nel corso della nostra stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e il pessimismo dei reazionari i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti.

In questo saggio, tuttavia, mio scopo non è di esaminare il presente o il futuro immediato, ma di sbarazzarmi delle prospettive a breve termine e di librarmi nel futuro.

Quale livello di vita economica possiamo ragionevolmente attenderci fra un centinaio d’anni? Quali sono le prospettive economiche per i nostri nipoti?

(..) Per il momento, la rapidità stessa di questa evoluzione ci mette a disagio e ci propone problemi di difficile soluzione. I paesi che non sono all’avanguardia del progresso ne risentono in misura relativa. Noi, invece, siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera.

Ma questa è solo una fase di squilibrio transitoria. Visto in prospettiva, infatti, ciò significa che l’umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico. Mi sentirei di affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. Né vi sarebbe nulla di sorprendente, alla luce delle nostre conoscenze attuali. Non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori. 

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Il conflitto morbido

Il clima politico, le condizioni economiche e sociali mutate e la sempre maggiore difficoltà ad emanciparsi e a realizzarsi definitivamente hanno portato gran parte dei giovani di oggi ad attenuare e ad ammorbidire il conflitto generazionale tra genitori e figli.

#STEFANOBOSSO PH. BUKHARA, UZBEKISTAN, 2017#STEFANOBOSSO PH. BUKHARA, UZBEKISTAN, 2017


La famiglia come ultimo avamposto di sicurezza e tranquillità in una società in continuo cambiamento e disgregazione. Una santa alleanza tra genitori e figli per mantenere quanto più possibile la propria posizione nella trincea della vita ed avere un’ancora di salvataggio nel momento del bisogno.

Molti gli spunti di riflessione dalla lettura del paragrafo Conflitto morbido dell’ottimo libro La fatica di diventare grandi (2014) di Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet, di cui riporto alcuni estratti.

Risultati immagini per la fatica di diventare grandiAnche i conflitti generazionali si smorzano notevolmente. Inizia una nuova fase dei
rapporti tra genitori e figli. Da un lato, perché quelli che da giovani erano stati i protagonisti della lotta contro il sistema e la famiglia sono oggi madri e padri, inseriti, nella maggior parte dei casi in quel sistema che contestavano. Dall’altro, perché è mutato il clima politico e soprattutto sono mutate le condizioni economiche.

Le generazioni degli anni Sessanta e settanta avevano come sfondo della protesta una situazione economica favorevole, forte. L’offerta di lavoro superava abbondantemente la domanda. Quando si parlava di lavoro si pensava naturalmente a tempo indeterminato. Il momento di frattura era pertanto tra scuola e lavoro, nel cui intermezzo si inseriva il servizio militare. Un momento che, rispetto alla situazione attuale, era anticipato per gran parte dei giovani. Infatti, in quegli ani per molti figli della classe operaia il raggiungimento del diploma era già un traguardo e rappresentava un passo in avanti rispetto alla generazione dei genitori, che aveva avuto scarse opportunità di studio, vuoi per motivi economici vuoi per la guerra.

Oggi il momento di rottura, che separa l’età dello studio da quella del lavoro, non solo è spostato in avanti in quanto sono molti di più i giovani che frequentano  l’università, ma la sua valenza si è pure attenuata, perché l’inserimento lavorativo è sempre più difficile e, anche quando si trova un impiego, è spesso precario e no rappresenta un vero progetto alternativo. Anzi, per certi versi, prolunga quella condizione di aleatorietà e di dipendenza dalla famiglia, tipica dello studente, protraendola nel tempo e rimandando il distacco dai genitori.

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La prossima generazione di disoccupati

oca e sfigatto

estratto da Lavorare gratis, lavorare tutti (2017) di Domenico De Masi 

(..) Oggi molti disoccupati che vivono nei Paesi ricchi escludono – si illudono di escludere – dal loro orizzonte temporale il pericolo di finire alla mensa della Caritas. In parte questa fiducia è dovuta al fatto che un americano o un europeo, per quanto povere, comunque dispone di un prodotto interno lordo pro capite di gran lunga superiore a quello del poverissimo abitante del Terzo mondo (basti pensare che il Pil pro capite negli Stai Uniti è di 54.000 dollari, in Italia di 36.000 dollari, nel Burundi di 268 dollari).

Ma questa fiducia è dovuta anche al fatto che questa prima generazione di disoccupati in massa è composta da figli di genitori occupati o pensionati che gli assicurano la sopravvivenza. Ma la prossima generazione di disoccupati sarà composta da figli disoccupati di genitori disoccupati e a quel punto, caduto il welfare familiare, o si mette mano a una riorganizzazione generale della società, o la convivenza umana è destinata davvero a diventare un serraglio hobbesiano in cui ogni uomo è lupo per l’altro uomo e non esiteranno più Paesi in cui si potrà scappare sperando di trovarli vivibili e di trovarvi lavoro.

Cert’è che il tasso di disoccupazione nell’Unione europea è passato dal 7% del 2006 l 12% del 2016. In Italia, nello stesso decennio, è salito dall’8% al 13,5%. Quanto alla disoccupazione giovanile, che in Europa è al 22%, in Italia è impennata dal 16% del 2006 al 38% del 2016. (..)

Il Welfare dei Millennials

welfare millennials obiettivo italia

Ieri si è tenuto un convegno organizzato da Obiettivo Italia sul tema del Welfare dei Millennials presso il centro Congressi Roma eventi all’Audiotorium Loyola. Molti i nomi illustri tra cui il presidente dell’Inps Tito Boeri e l’ex ministra Elsa Fornero in collegamento telematico.

Qui un ottimo sunto dei vari interventi che hanno animato il dibattito. Come al solito tante buone idee e propositi e tanti i temi trattati: fiscalizzazione degli oneri sociali, migliori politiche attive del lavoro (vedi centri per l’impiego e di orientamento), formazione continua, incentivi fiscali per le imprese che assumono giovani, crisi economica e demografica, mancanza di continuità contributiva, reddito di cittadinanza, pensioni minime, minore tassazione, etc. Aspettiamo con rassegnato ottimismo di vedere cosa accadrà in futuro.

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Il falso problema della post-verità

articolo di Evgeny Morozov tratto da Internazionale del 13 gennaio 2017

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#STEFANOBOSSO PH. 2017


La democrazia sta annegando in un mare di notizie false. Questa è la rassicurante conclusione a cui sono arrivati tutti quelli che nel 2016 hanno perso nelle consultazioni popolari, dalla Brexit alle presidenziali statunitensi al referendum in Italia. Per queste persone il problema non è che il Titanic del capitalismo democratico stia navigando in acque pericolose, ma che ci siano troppe notizie false sulla presenza di iceberg all’orizzonte. Da qui nascono tutte le soluzioni sbagliate: vietare i memi su internet, creare commissioni di esperti per controllare la veridicità delle notizie, multare i social network che diffondono falsità.

La crisi delle notizie false segnerà il collasso della democrazia o è solo la conseguenza di un malessere più profondo e strutturale? E’ evidente che esiste una crisi, ma una democrazia matura dovrebbe chiedersi se al centro di questa crisi ci sono davvero le notizie false o qualcosa di molto diverso. Le nostre élite, purtroppo, non hanno intenzione di farlo. La loro narrazione sulle notizie false è essa stessa falsa. E’ una spiegazione superficiale di un problema strutturale di cui rifiutano di ammettere l’esistenza. Il fatto che l’establishment abbia scelto di concentrarsi sulle notizie false dimostra fino a che punto la sua visione del mondo sia ottusa.

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Quanto “contano” i giovani? La scarsità numerica e la “sindrome del ritardo”

Di seguito una profetica analisi di Massimo Livi Bacci “Quanto contano i giovani?” in un ottimo ed ancora attuale libro del 1999 La generazione invisibile, inchiesta sui giovani del nostro tempo, a cura di Ilvo Diamanti.

Quanto è cambiata la situazione dei giovani rispetto alla fine degli anni ’90? Poco o nulla sembra rileggendo questo contributo di allora.

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#STEFANOBOSSO PH. 2016


Quanto “contano” i giovani? di Massimo Livi Bacci

generazione invisibile quanto contano i giovani massimo livi bacci

C’era una volta il giovane. Tutti sapevano chi era: finiti gli studi, l’apprendistato o il “garzonato”, a seconda dello stato sociale e del censo della famiglia era richiamato alle armi – un passaggio obbligato per la vita adulta. Terminato il servizio militare, l’aspettava un lavoro stabile, nei campi, nelle fabbriche o negli uffici; il matrimonio; l’attesa dei figli. Nel tempo breve di una manciata di anni si consumava il tragitto dall’adolescenza all’età adulta. Per la giovane, la transizione era ancora più rapida.

I giovani erano questi, o, per lo meno, per definirli si sarebbe ricorso ad un modello del genere. Non occorre risalire tanto addietro nel tempo per ritrovare un analogo paradigma; ancora nelle generazioni nate nell’ultimo dopoguerra, che oggi stanno strenuamente difendendo le ultime tracce di gioventù, i passaggi cruciali alla vita adulta avvenivano nel giro di poco tempo: uscita dalla casa dei genitori, lavoro, matrimonio, nascita di un figlio. I giovani erano tanti: negli anni Cinquanta arrivavano annualmente alla maggiore età in 800 mila circa ma nello stato di gioventù restavano. mediamente, assai poco.

La definizione di “giovane” – o il modello che se ne ha è oggi molto più confusa. Essa abbraccia una fascia di età molto più estesa, che inizia con l’adolescenza e comprende buona parte del quarto decennio di vita quando si completa, dopo un processo lento e faticoso. l’acquisizione dell’autonomia. In questa fascia convive chi è da poco uscito dall’infanzia e chi porta nel fisico gli inequivocabili segni della maturità. L’acquisizione dell’autonomia e dell’indipendenza che porta all’età adulta avviene nell’arco di un ventennio.

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I dieci comandamenti di Bertrand Russell per vivere in una sana democrazia

traduzione ed estratto via Open Culture del 14 marzo 2013

Bertrand Russell vedeva la storia della civiltà come essere stata modellata da una infelice oscillazione tra due mali opposti: la tirannia e l’anarchia, ognuno dei quali contenente il seme dell’altro. La migliore strada per tenersi alla larga da entrambi, sostiene Russell, è il liberalismo.

Bertrand Russell, by J. F. Horrabin.jpg https://commons.wikimedia.org

“La dottrina del liberalismo è un tentativo per eludere questa oscillazione senza fine”, scrive Russell in Storia della filosofia occidentale. “L’essenza del liberalismo è un tentativo di garantire un ordine sociale non basato su dogmi irrazionali [una caratteristica della tirannia], che assicuri la stabilità [che l’anarchia mina] senza implicare più restrizioni di quanto siano strettamente necessarie per la preservazione della comunità.”

Nel 1951, Bertrand Russell pubblicò un articolo sul The New York Times Magazine “La miglior risposta al fanatismo – Il liberalismo”, con il sottotitolo: “La sua calma ricerca per la verità, vista come pericolosa in molti posti, resta la speranza dell’umanità”. Nell’articolo, Russell scrive che “Il liberalismo non è tanto una dottrina quanto una disposizione. Esso, infatti, è l’opposto delle dottrine”. (..)

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