Ida Magli e l’Europa

20 anni fa, nel 1997, usciva il libro Contro l’Europa di Ida Magli.
Al tempo fu una delle prime voci nettamente contrarie alla nuova Europa che si andava costruendo. Riporto alcuni estratti che ancora risultano molto attuali.

Dal Cap. 1 O EUROPA O MORTE

Risultati immagini per magli contro l'europa(..) Il progetto europeo, con l’omologazione degli Stati e dei cittadini, è un’idea comunista. Infatti, si regge, a sua giustificazione, per prima cosa su strutture economiche. Ma il primato delle leggi economiche comporta l’uguaglianza concreta perché il denaro è concreto, impone le proprie leggi ai bisogni fisici. In senso inverso, ma in base alla stessa logica, il comunismo livella, e li deve livellare, i bisogni fisici per renderli economicamente dominabili. Come vedremo, “gli indirizzi comuni” del trattato di Maastricht sono una derivazione, con un linguaggio diverso, delle teorie di Marx.
In Europa è stata silenziosamente assorbita la sua lezione: è l’economia che dirige il mondo. Gli economisti si sono accorti che questa era un’arma che li poneva a capo di qualsiasi sistema sociale, mettendo nelle loro mani tutto il potere. Così, oggi, sono gli economisti a guidare le organizzazioni mondiali più importanti. In base al solito meccanismo dell’assolutizzazione che spinge gli uomini a compiere sempre lo stesso errore, quello di affidarsi ad un unico principio, le leggi dell’economia, malgrado nessuno possa dimostrarne l’obiettività scientifica, sono assunte al rango di verità indiscutibile, di vera e propria religione. Gli italiani, poi, votati perdutamente, come sempre nella loro storia, alle religioni e alle dittature, sono stati i primi ad unificare la figura dell’economista con quella del Capo di Governo (Ciampi, Dini, Prodi), cosa di per sé esiziale perché è come aver nominato in tempo di guerra Capo del Governo un Generale. Il governo Prodi è formato in maggioranza da economisti anche là dove appare grottesco come per il Ministro della Difesa, in quanto, come capita normalmente per investiture sacrali, basta essere un economista per garantire la propria capacità in qualsiasi cosa. Ci si accorge adesso, di fronte ai primi sussulti provocati dal nuovo governo francese nei confronti della dittatura degli economisti di Maastricht, di come sia assurdo essersi affidati totalmente a degli “integralisti monetari” quali Ciampi, Prodi e Kohl.

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La Generazione

Tra i vari libri sul tema, una delle migliori spiegazioni del concetto di “Generazione” si trova nel Dizionario di sociologia di Luciano Gallino.

Dizionario di sociologia gallino

Generazione
(fr. génération, ingl. generation, sp. generaciòn, ted. Generation).

A Insieme di individui (o coorte, nel linguaggio dei demografi) che presentano simultaneamente le seguenti caratteristiche: a) sono nati entro un medesimo arco temporale, misurato in lustri o decenni, e si trovano quindi pressapoco allo stesso punto del loro ciclo biologico; b) sono oggetto come tali di azioni e valutazioni sociali particolari, variabili da una società all’altra, ma in ogni caso differenti alle altre coorti di età che sommate a esse formano la popolazione di una società; c) occupano, a causa dell’operare congiunto di tali fattori una posizione sociale globalmente simile nel processo di socializzazione primaria e secondaria, nella carriera lavorativa, nel sistema giuridico, economico e politico, nella famiglia; d) sono esposti per tutto l’arco di tempo considerato, a causa dei predetti fattori, a esperienze sociali, culturali, psicologiche complessivamente simili (e diverse da quelle delle altre G.), pur in presenza di marcate variazioni dovute alla diversa affiliazione di classe o di strato sociale.

L’ampiezza temporale di una G. riflette caso per caso lo status e i ruoli attribuiti di una data società e cultura alle diverse età della vita, in rapporto alle caratteristiche fondamentali del suo ordine sociale e al suo tipo e rado di differenziazione. Perciò tale ampiezza varia secondo le società e le epoche. Nelle società occidentali del XX secolo, l’ampiezza di una G., come sopra definita, può stimarsi in una ventina d’anni.

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Il più grande successo dell’Euro

“Noi prendiamo una decisione in una stanza, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo di vedere cosa succede. Se non provoca proteste o rivolte, è perché la maggior parte delle persone non ha idea di ciò che è stato deciso; allora noi andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno.”
Jean-Claude Juncker, Der Spiegel, 27 gennaio 1999


tratto da Il più grande successo dell’Euro

“Il grande successo dell’euro”: così Mario Monti nel 2011 definiva la Grecia, all’epoca già colpita da una grave crisi economica e sottoposta a programmi di austerità che non davano segni di efficacia.
E in effetti i greci nel film raccontano di una nazione relativamente prospera che retrocede a paese in via di sviluppo. Una distruzione di ricchezza mai vista in tempo di pace: la disoccupazione è al 26% e il sistema sanitario nazionale è precluso ad un terzo dei cittadini. In questo scenario, la sicurezza di un pasto diventa il primo obiettivo per una grande parte della popolazione.
L’avvento dell’euro rese improvvisamente la Grecia il paradiso dei prestiti, mentre oggi la realtà parla di pignoramenti impietosi. Proliferano le mense di strada e il numero dei senzatetto aumenta. “Non può accadere per caso” – commentano medici e pazienti – che uno stato europeo lasci i suoi malati senza farmaci salvavita. Una conseguenza emblematica e assurda dell’austerità, imposta per salvare la Grecia e che invece scatta come una trappola, letteralmente, mortale.
Come si è arrivati a questo? Nel film lo ricostruiscono alcuni studiosi. Vladimiro Giacché e Alberto Bagnai descrivono l’euro come uno strumento che ha fatto saltare i delicati equilibri europei a tutto vantaggio degli investitori internazionali e dei sistemi industriali nazionali che già erano più forti. Alcuni dati sono paradossali: la Grecia, forte nell’agroalimentare, negli anni dell’euro diventa importatore netto dalla Germania nel settore. Il collasso appare innescato dal debito privato e non da quello pubblico, come solitamente si crede. “La gestione della crisi riflette un approccio ideologico”, premette Bagnai, citando il vice-presidente della Bce, il quale, proprio ad Atene, ammise il fallimento delle teorie economiche applicate all’eurozona. I buoni livelli di giustizia sociale raggiunti nel ‘900 ora sono spazzati da un nuovo paradigma, secondo l’antropologo Panagiotis Grigoriou. Alla fine l’espressione di Monti, così stridente, appare in una luce diversa: l’euro è un successo per pochi. Oggi il fallimento dell’euro è un dato ormai ampiamente riconosciuto: al centro dell’analisi politica ed economica resta la ricerca di una via d’uscita dalla crisi.

L’€uropa è stata un pieno successo

Parte finale del bellissimo articolo 60 ANNI DAL TRATTATO DI ROMA: L’€UROPA E’ STATA UN PIENO SUCCESSO del 24 marzo 2017 di Luciano Barra Caracciolo

(…) 8. D’altra parte, se cade la premessa solidaristica, cade tutto il resto del discorso sulle prospettive di riavvio del processo in forme solidali (ma come? Volute e esplicitate da chi?) che, nella realtà giuridico-istituzionale dell’eurozona non si sono mai presentate e neppure sono mai state contemplate. Non è la “nazionalizzazione” il problema che porta alla crisi dei rapporti tra paesi aderenti alla moneta unica e, in realtà, a maggior ragione, con quelli che non vi aderiscono. E’ proprio l’ordinario agire applicativo dei trattati.

La verità che trapela prepotente da tutto questo quadro pare oggettivamente essere un’altra.
La Germania, abbiamo visto potenza vincitrice della competizione commercial-industriale cui ha portato l’assetto esplicitamente antisolidaristico dei trattati, non si considera “in crisi”
E, con essa, al netto del problema cultural-sociologico dell’immigrazione, neppure l’Olandacome conferma il senso ultimo delle contestate dichiarazioni di Djisselbloem, appunto endorsed da Schauble senza alcuna riserva.
E dunque, i vincitori, all’interno del processo europeista che, data l’importanza decisiva dei rapporti di forza che i trattati internazionali tendono inevitabilmente ad amplificaretenderanno ad affermare ulteriori evoluzioni in senso ancora più stringente verso l’affermazione del “loro” modello di “integrazione”
La stessa “europa a due velocità” non è altro che un modo di affermare che i paesi “irrevocabilmente” (come lo stesso Draghi ha tenuto a ri-precisare) dentro l’eurozona sono il vero e unico bersaglio pratico delle prospettive di accelerazione del modello attuale. Senza alcun compromesso possibile. 

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Ciao maschio e suicidio demografico

“Dovunque la fertilità è sotto la soglia minima di sopravvivenza della popolazione. In italia in 50 anni abbiamo perso il 50% delle nascite ed ogni anno i demografi ci ricordano che il numero dei morti supera quello dei nati. Se continuiamo così, con 1,3 figli in media a donna ci avviamo dritti dritti a veder scomparire nel giro di tre generazioni il 60% dei giovani, un suicidio demografico.”

qui la puntata completa del 13.03.2017 di Presa Diretta

Il divario generazionale, Rapporto 2017

Ieri nell’aula magna dell’università Luiss di Roma si è tenuta la presentazione del Rapporto 2017 della Fondazione Bruno Visentini dal titolo “Il Divario Generazionale tra conflitti e solidarietà”.

Dalla presentazione del Rapporto:

Si può parlare, per i millennials, i nati alla fine del secolo scorso, di “generazione perduta”, appellativo che fu in precedenza attribuito ai loro genitori? La risposta è no, ma il rischio di una deriva è molto elevato e gli oneri per uscire dall’impasse gravano, attualmente, sui diretti interessati. Questi “crescono” in una società costruita e gestita a misura delle generazioni mature, che preclude ai giovani anche la visione, la speranza e l’aspettativa stessa di un benessere futuro: una società “dominata” dai baby boomers che hanno goduto di una confortevole gioventù e che oggi approdano a una confortevole vecchiaia da silver boomers. La questione del “divario generazionale”, così come le possibili soluzioni a essa connesse, chiamano in causa innanzitutto i principi di solidarietà (art. 2) e di uguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione (art. 3): non è possibile, infatti, essere «eguali di fronte alla legge» ovvero esercitare i medesimi diritti, sia civili che sociali, se prima non vengono rimosse le condizioni di diseguaglianza che impediscono a tutti di fruirne effettivamente.
In questo quadro la ricerca ha compiuto un’analisi comparata delle principali esperienze italiane in tema di riduzione del divario generazionale, attraverso l’aggiornamento al 2030 di uno specifico Indicatore di Divario Generazionale (messo a punto nel 2015 in partnership con la FBV dal ClubdiLatina) e operando nell’ambito degli obiettivi indicati dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta nel 2015 da tutti i paese membri dell’ONU.
Una forbice – è emerso – le cui ‘lame’ tra 2004 e stima 2030 triplicano la loro distanza. se cioè, un giovane di vent’anni nel 2004, per raggiungere l’indipendenza, doveva scavalcare un ‘muro’ di un metro, nel 2030 quel muro sarà alto 3 metri e dunque invalicabile. e, lo stesso giovane, se nel 2004 aveva impiegato 10 anni per costruirsi una vita autonoma, nel 2020 ne impiegherà 18, e nel 2030 addirittura 28: diventerebbe, in sostanza, “grande” a cinquant’anni.

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Una storia di Heinrich Böll

Girano varie versioni con titoli diversi di una storia di Heinrich Böll che avevo letto qualche anno fa. Il titolo originale è Anekdote zur Senkung der Arbeitsmoral (tradotto in italiano “Aneddoto con effetto deprimente sulla morale del lavoro” o “Il turista e il pescatore”). Ne propongo un paio, più il cartone animato in inglese trovato in rete. La morale potrebbe essere: “Tutto ‘sto casino per cosa?” o per dirla con le parole di un libro: “Quanto è abbastanza?”

#stefanobosso merissa beach srilanka#stefanobosso ph, merissa beach, sri lanka, 2011


Un turista si concentra su un’immagine idilliaca: in una spiaggia, un uomo in abiti semplici sta sonnecchiando in una barca da pesca, mentre le onde si increspano sulla sabbia. La macchina fotografica scatta. Clic. Clic. Il pescatore allora si sveglia.

Il turista gli offre una sigaretta e inizia una conversazione:
“Il tempo è ottimo, ci sono un sacco di pesci, perché stai sdraiato qui invece di uscire e andarne a catturarne di più?”
Il pescatore risponde:
“Perché ho ne presi abbastanza questa mattina.”
“Ma immagina”, dice il turista, potresti andare fuori 3 o 4 volte al giorno, portando a casa 3 o 4 volte il numero dei pesci! E sai cosa succederebbe?”
Il pescatore scuote la testa.
“Dopo circa un anno potresti acquistare un motoscafo … dopo 2 anni potresti acquistarne un altro, e impiegare un’altra persona .. e dopo 3 anni potresti avere un peschereccio o due .. e pensa.. un giorno potresti essere in grado di costruire un impianto con delle celle frigorifere e un’affumicatoio. Alla fine potresti avere anche un elicottero tuo per il tracciamento dei branchi di pesce e per guidare la tua flotta di pescherecci, o potresti acquistare dei camion per trasportare il pesce alla capitale e poi.. “
“E poi?”, chiede il pescatore.
“E poi” – il turista continua trionfalmente – “potresti essere tranquillamente seduto in riva al mare, a sonnecchiare al sole e a contemplare questo splendido mare!”
“Ma è esattamente quello che stavo facendo prima che arrivassi tu!”, risponde il pescatore.

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La voragine dei trentenni

estratti dell’articolo di Michele Tiraboschi pubblicato su Bollettino Adapt il 20 febbraio 2017

(…) E qui è necessario intendere esattamente chi sono i nostri “giovani” senza scadere, da un lato, nel giovanilismo e, dall’altro lato, in un atteggiamento altezzoso nei confronti di bamboccioni, choosy e sfigati vari. Ed è anche necessario capire a quali indicatori guardare per effettuare una seria diagnosi al nostro mercato del lavoro. Se infatti l’attenzione spesso si concentra sulla fascia d’età 15-24 anni, denunciando giustamente il mastodontico 40% di giovani disoccupati, questo dato potrebbe essere poco indicativo per valutare lo stato di salute del mercato e l’effetto delle riforme. Nel nostro Paese, e non è certo cosa di cui vantarsi, i giovani hanno percorsi di studio che terminano ben oltre i 24 anni, mentre gli stessi giovani e le loro famiglie danno ormai per scontato di svolgere i primi lavori al termine del percorso scolstico o universitario attraverso una sequenza di tirocini come se lo studio non fosse servito a nulla.

In realtà il dato più interessante e al tempo stesso drammatico è quello della fascia d’età tra i 25 e i 34 anni ed occorre osservarlo non tanto dal punto di vista dei tassi di disoccupazione quanto da quello degli inattivi e degli scoraggiati che un lavoro non lo cercano neppure. E si scopre così che se nel 2007, alle porte della crisi, lavoravano 70 persone su 100 in questa fascia d’età, oggi sono 60. Per capire la gravità di questi numeri basti pensare che il target europeo per l’occupazione tra i 20 e i 64 nel nostro Paese è del 75%. E non ci si può difendere con l’argomento demografico, sostenendo che l’invecchiamento della popolazione svuota le fila delle armate dei giovani. Qui parliamo di tassi di occupazione, un dato depurato dagli aspetti demografici.

Stiamo quindi espellendo dal mercato del lavoro la generazione con più laureati della storia del nostro paese e con maggiore attitudine alle tecnologie di nuova generazione. Un paradosso che fa male, e che le politiche degli ultimi anni hanno alimentato, ovviamente insieme al peso della crisi economica. La decontribuzione generalizzata infatti ha premiato quei lavoratori più maturi, magari in situazioni di disoccupazione a causa di ristrutturazioni aziendali, che le imprese non dovevano formare, o ha fatto sì che venissero stabilizzati lavoratori già occupati nelle imprese stesse. Non quindi una politica per i giovani. E peraltro neppure una politica di vera stabilizzazione se si considera il dato del superamento dell¹articolo 18.

(…) Il punto davvero critico resta però una seria riflessione sulla idea di lavoro nella grande trasformazione in atto della economia e della società indotta da fattori demografici e ambientali e da un tumultuoso progresso tecnologie. Ci pare infatti illusorio intestardirsi sull’utilizzo di contratti a tempo indeterminato che, dopo il Jobs Act, hanno ormai perso il connotato della stabilità e che soprattutto, come mostrano i trend dei nuovi avviamenti post-decontribuzione, non rispondono più alle esigenze della nuova economia e sempre spesso, anche se si ha paura a dirlo chiaramente, dei lavoratori. A ben vedere è proprio questo intestardirsi a far sì che chi vuole rapporti di lavoro più flessibili e autonomi, sempre in collaborazione con imprese, debba ricorrere a strumenti senza tutele e che portano a redditi miseri.

qui articolo completo

Una sfida a tutte le forze che si candidano a guidare il paese

post di Enrico Mentana su fb del 21 febbraio 2017

Una sfida a tutte le forze che si candidano a guidare il paese: l’impegno a varare una legge di solidarietà generazionale con un prelievo sui redditi di quanti decidono di continuare a lavorare oltre i 66 anni destinato a finanziare l’ingresso negli stessi settori di under 30. Col 20% dello stipendio di un magistrato o di un giornalista, di un medico o di un docente universitario si assumono due giovani. Con l’avallo degli ordini professionali e delle associazioni di categoria si può attuare un piano empirico per l’occupazione giovanile da diverse centinaia di migliaia di posti. Ci sono molte idee da mettere in pratica, per superare l’inutile sfida tra jobs act e reddito di cittadinanza.

C’era una volta la “Meglio Gioventù”

estratti dall’articolo C’era una volta la “Meglio Gioventù” di Paolo Naticchioni, Michele Raitano e Claudia Vittori del 16 luglio 2014

Il problema della disoccupazione giovanile sta caratterizzando il dibattito di politica economica in Europa e in particolar modo in Italia ed è divenuto oramai un tema di acceso interesse per l’opinione pubblica e il mondo accademico. Studiosi e giornalisti sono concordi nell’enfatizzare le condizioni sfavorevoli delle giovani generazioni nel mercato del lavoro, sia rispetto agli adulti e agli anziani, sia rispetto ai giovani delle precedenti generazioni, tanto da riferirsi sovente ai più giovani con termini quali generazione sacrificata, generazione zero, generazione 1.000 euro. Il Financial Times ha recentemente parlato di “lost generation” per sottolineare la forte caduta dei salari dei più giovani rispetto alle generazioni precedenti.

(..)

La riduzione potrebbe, dunque, dipendere soprattutto dalle peculiarità della struttura produttiva italiana. La sostanziale stabilità della domanda di lavoro qualificato potrebbe, infatti, derivare da una struttura produttiva che fatica a introdurre innovazioni, anche perché le imprese perseguono strategie di contenimento dei costi, anziché di miglioramento della qualità e, perciò, non riesce a mettere a frutto le potenzialità di giovani generazioni mediamente più istruite. D’altro canto, tali strategie potrebbero essere state rese più convenienti dal processo di deregolamentazione delle forme contrattuali e dalla minore incisività dell’azione dei sindacati che, indeboliti ed impegnati a difendere i livelli salariali minimi, potrebbero aver dedicato minore attenzione alle mansioni e alle prospettive di carriera offerte ai più istruiti.

Se questa analisi è corretta, sarebbe un grave errore pensare che per migliorare le prospettive delle nuove generazioni sul mercato del lavoro sia sufficiente intervenire soltanto dal lato dell’offerta senza preoccuparsi di incidere, primariamente, sui vincoli che emergono dal lato della domanda.


20.11.2017 Aiutiamoli a casa loro… i nostri cervelli in fuga